Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno"

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Bomba demografica e distruzione delle risorse
Ugo Stornaiolo


La popolazione mondiale ha superato i 6 miliardi di abitanti, e continua a crescere. Pure se, come pare, si è già avviato un processo verso la stabilizzazione. Non è possibile al momento avanzare previsioni attendibili sul numero in cui si fermerà: c’è chi ha pronosticato una popolazione futura stabilizzata in 12 o meno miliardi e chi invece in 200 o piú, e fra questi estremi vi sono altri “indovini” che pongono i limiti malthusiani in 20 o 50 o 100 miliardi di abitanti, i quali in qualche modo dovrebbero riuscire a ricavare le scorte di cibo e altri beni di prima necessità. Ciò che si può affermare con certezza è che negli anni a venire la popolazione si addenserà sempre di piú in conglomerati urbani; e vi saranno maggiori migrazioni a livelli nazionali e internazionali e, di conseguenza, un maggiore mescolamento delle genti verso gruppi sempre piú eterogenei, in senso culturale, economico ed etnico. Complementari a queste previsioni demografiche, vanno considerati alcuni problemi collegati con lo squilibrio ecologico in atto, su cui non si conoscono ancora le soluzioni: vi sarà una diminuzione di aree fertili (anziché l’aumento necessario per una popolazione in crescita); vi sarà il rapido esaurimento delle fonti energetiche e dei metalli base; vi sarà un crescente inquinamento. A complicare ancora la situazione si ha che le risorse saccheggiate alla Natura non sono equamente distribuite, e non lo saranno in futuro a meno di grossi sconvolgimenti politici e/o economici.
Esplosione demografica e aumento della fame. Oggi è clamoroso il momento di esplosione demografica che sta vivendo il nostro pianeta, non per mancanza assoluta di spazio, ma perché le risorse, particolarmente quelle alimentari, non crescono con la stessa velocità. Infatti, l’agricoltura non è riuscita con le strutture esistenti a soddisfare il maggiore fabbisogno di alimenti, e con l’allevamento i risultati sono stati ancora peggiori. La maggiore disponibilità di cibo si è ottenuta fino adesso non tanto con l’aumento della produttività unitaria quanto con l’utilizzazione di nuove superfici: le aree coltivate dopo il 1950 aumentarono del 40% rispetto a quelle coltivate prima (pure se a scapito della vegetazione naturale e degli animali che vi abitavano). Le prospettive per il futuro non possono invece essere tanto promettenti, se si vaglia che le aree di coltivazione sono giunte a saturazione, e anzi si vanno riducendo gradualmente per l’indebolimento di molte terre e per il fenomeno della desertificazione in atto. In teoria esistono possibilità di intensificare l’agricoltura; ma, quali speranze possono esserci da una società che regolarmente distrugge centinaia di migliaia di tonnellate di verdura e frutta per mantenere i costi, anche quando altrove si muore letteralmente di fame? Il fatto è che occorrerebbe incrementare la produzione mondiale di cereali, che è di 1,3 miliardi di tonnellate metriche annuali, di almeno altri 25 milioni in più ogni anno per affrontare la crescente domanda; ma in realtà, negli ultimi due decenni si è prodotto addirittura un disavanzo. Neppure dal mare si possono aumentare realisticamente le provviste di pesce, se non si vuole aggravare il già enorme saccheggio che è stato perpetrato; e se vi sono prospettive di un’agricoltura di mare, nella pratica ciò non si realizzerà in tempi brevi. La conseguenza più angosciosa dell’esplosione demografica, se tali sono le condizioni, è ovviamente quella della fame, che colpisce buona parte della popolazione mondiale, il cui numero, in termini relativi e assoluti, tende ad aumentare. Oltre alla fame vi è la miseria, e le popolazioni povere aumentano a una velocità che, ancora a lungo, continuerà a creare massicce pressioni sullo sviluppo economico, non tanto allo scopo di elevare la vita a livelli più accettabili, ma semplicemente per mantenere in vita questo torrente di gente con le risorse strettamente necessarie per la sopravvivenza.
Implosione demografica conurbazione e megalopoli. Nei paesi poveri (e quelli “ex poveri”, come Cina e India), la popolazione urbana cresce a un ritmo tre volte superiore rispetto a quello dei paesi ricchi, dove si è andata delineando una tendenza contraria, con le attività industriali, le aree commerciali e le zone residenziali che si spostano dalla città verso altri luoghi, e numerose fabbriche sorgono in zone agricole, perché le reti telematiche e i trasporti veloci stanno annullando le distanze. Nei paesi poveri, invece, le grandi masse si accalcano in sterminate periferie cittadine, inseguendo la speranza, solo illusoria, di migliorare la propria esistenza. È il concetto stesso di città che è cambiato, e perciò si parla di metropoli, conurbazioni, megalopoli. Si definisce metropoli la città che estende la propria influenza a vaste regioni che la circondano: la metropoli statunitense di Houston si estende per 1.500 Kmq, quella cinese di Beijing(Pechino) per addirittura 16.000! Le metropoli hanno una popolazione elevata, superando di frequente i 10 milioni, e un’alta densità, come è il caso di Tokyo, con i suoi 14.000 abitanti/Kmq. Diversa dalla metropoli è la conurbazione, che si è realizzata dove i centri urbani, con le proprie cinture di città satelliti, si sono congiunti senza perdere la propria identità e autonomia. La conurbazione è una struttura territoriale più vasta e complessa di una singola città. E là dove diverse conurbazioni si sono saldate, appaiono le megalopoli, costituite da una serie di città di varie dimensioni, tra cui si stendono anche aree non edificate ricoperte di boschi e parchi, zone agricole dove si coltivano ortaggi e frutta destinati al consumo degli abitanti. Il territorio della megalopoli è molto articolato e alterna aree urbane a spazi agricoli, industriali, ricreativi. La più grande megalopoli si trova nel nord-est degli Stati Uniti, sulla costa atlantica, lungo l'asse Washington-Boston: essa è lunga 600 Km e larga 200. Conta circa 50 milioni di abitanti, con una densità media di 300 persone per chilometro quadrato; comprende altre importanti città e metropoli, fra cui Baltimore, Philadelphia, addirittura New York, con un totale di 30 aree urbane. La megalopoli chiamata “San San”, da San Francisco a San Diego, si affaccia per 800 chilometri di lunghezza sulla costa del Pacifico, in California, e quella di "Chippitts", da Chicago a Pittsburgh, è disposta invece lungo i grandi laghi centrali. Un’altra grande megalopoli è quella del "Tokaido", in Giappone, che si sviluppa per circa 300 chilometri, con Tokyo che inghiottisce, fra altre grandi città, anche Yokohama. Londra tende a coprire tutta l’Inghilterra sud-orientale. Anche in Italia, come in altre parti del mondo, c’è la tendenza alle megalopoli come “RoNa”, da Roma a Napoli, o “MiTo”, da Milano a Torino (o forse anche GeMiTo, includendo Genova). Le città, è vero, non si sono sviluppate tutte con la stessa irrazionalità, e ciò per ragioni varie -geografiche, economiche, tecnologiche, politiche, di retaggio storico- e da qui la diversità nelle concentrazioni umane in senso orizzontale e verticale, così come nell’igiene e nei livelli di inquinamento, nella mobilità dei trasporti urbani ed extra-urbani, nella dinamicità sociale, culturale, politica, finanziaria, malavitosa, e nelle funzioni stesse che la città esercita, secondo se è prevalentemente residenziale, industriale, portuale, terziaria, storica. Vi sono differenze radicali nell’ambito di una stessa città fra i quartieri che la compongono, da quelli panoramici, aerati e meglio protetti e serviti, a quelli sovrappopolati, fatiscenti e malsani. Riconosciuto che fra loro le città non sono uguali nella strutturazione e nello sviluppo, bisogna però dire che tutte, quando crescono oltre il loro limite naturale, finiscono per generare analoghi problemi: disfunzioni (nel traffico stradale, nei servizi di acqua, gas ed energia elettrica, in quelli telefonici, ospedalieri, scolastici, burocratici, di vigilanza), e inquinamento generale, tensione crescente nei rapporti umani, delinquenza organizzata, aumento del disordine, degli incidenti, delle malattie e delle morti innaturali. Un tale sfacelo nel funzionamento della vita cittadina diventa sempre più esasperato e tende alla totale paralisi di ogni attività. In futuro vedremo non solo crescere le città, ma alcune morire, così come qualche decennio fa morirono interi quartieri del Bronx e di Detroit, lasciati completamente abbandonati, eccetto che da ratti e scarafaggi, e da “cercatori” di legno, metallo o qualche particolare oggetto da smerciare, oppure semplicemente meta di bande di ragazzi. Il processo di implosione demografica non sempre porterà alla morte relativamente tranquilla verificatasi con quei quartieri del Bronx e di Detroit, lasciati gradualmente, in parecchi anni, dai loro abitanti riusciti a trasferirsi altrove. Quando tali sbocchi non si renderanno più disponibili, e non ci vuole molta immaginazione per fare una previsione del genere, la paralisi e la conseguente morte di una città scateneranno le enormi potenzialità distruttive accumulate, con esiti disastrosi ben oltre l’area dell’implosione vera e propria.
Displosione demografica e dinamiche d’appartenenza. Intanto, quel flusso di gente che migra dalle campagne alle città, combinato con altri spostamenti sempre più frequenti di popolazione fra quartieri, città, regioni, nazioni e continenti (come oggi i profughi africani che quotidianamente sbarcano in Italia o in Spagna), produce anche il fenomeno della displosione demografica, scaturito dall’attrito fra persone e fra gruppi che si trovano rimescolati per etnia, nazionalità, fede religiosa, ideologia, condizione economica, livello culturale... Un tale attrito si produce per il fortissimo senso di coesione che l’uomo ha nei riguardi del proprio gruppo, che lo porta a respingere tutti quelli che non vi appartengono, retaggio di un lungo periodo in cui i nostri antenati dovettero collaborare fra loro nelle spedizioni di caccia e in altre imprese organizzative necessarie per sopravvivere, che fece sviluppare in grado elevatissimo quella pulsione che già altri mammiferi prima di lui avevano posseduto per mantenersi uniti. Desmond Morris rende bene l’idea di che cosa è tale senso di coesione, quando spiega le motivazioni dei tifosi di calcio. L’attività sportiva è una forma modificata, rituale, della caccia, e serve per soddisfare gli istinti rimasti latenti dalle esperienze umane di un lungo passato come cacciatori: segnare una rete è simbolicamente come cogliere la preda, e vincere la partita è addirittura come assicurare i mezzi per la sopravvivenza. Il tifoso, immedesimandosi nei calciatori della squadra del cuore, pseudo-cacciatori, ripristina la propria condizione di membro della “tribù” che la squadra rappresenta; gli alti e bassi di un campionato diventano per lui vere e proprie vicissitudini della vita. Questo vale per il calcio come per altri sport, ma vale altresì per ogni tipo di campanilismo, da quello circoscritto alla nostra famiglia o alla cerchia di amici, a quello di gruppi sempre più grandi di cui formiamo parte, passando per la scuola o facoltà universitaria, la ditta dove lavoriamo o l’arma dove abbiamo fatto il servizio militare, il circolo sociale, sportivo o culturale che frequentiamo, così come la chiesa o partito politico o sindacato cui aderiamo, e poi lo strato sociale, il livello culturale e la professione...Fino al concetto astratto di popolo. Perciò in molte lingue primitive il nome dato a se stesso da un popolo significa “gli uomini” o qualcosa di analogo, e ciò ha reso più facile anche in seguito il poter disprezzare, odiare, schiavizzare, torturare, uccidere gli altri, i “non-uomini”, non appartenenti al proprio gruppo nazionale o al proprio ceto. Non potendo qui approfondire sui meccanismi che spingono gli sportivi a distruggere stadi, a ferire e uccidere, e ai cittadini in generale a commettere le più ignobili brutalità per ragioni di “patriottismo” o di fanatismo religioso e ideologico, di razzismo, sessismo e altre dimostrazioni della tremenda dipendenza umana ai pregiudizi (altro che libero arbitrio!), qui interessa evidenziare che, con le tensioni in aumento in una città che cresce, viene a ripercuotersi tutta una serie di situazioni dialettiche contraddittorie nella vita dei cittadini. Le due lame della displosione -che si uniscono per configurarsi in una vera e propria cesoia, capace di lacerare il tessuto organico di una città- sono l’intolleranza verso gli altri. Quelli che non ci assomigliano fisicamente o psichicamente, che hanno una fede religiosa “sbagliata" o non l’hanno affatto, che sono iscritti al partito politico da noi avversato, che vestono in modo “bizzarro” e si pettinano come a noi non piace, che hanno un livello di educazione diverso dal nostro, tifano per una squadra “antipatica”, leggono “brutti” giornali o ascoltano musica “orribile”, e che agiscono in maniera “stramba”, appartengono a quella gente che non possiamo tollerare e che merita di essere disprezzata, insultata, umiliata, raggirata, picchiata, magari soppressa. In generale avviene che queste e altre sfumature dell’intera gamma compresa fra il disprezzo e la violenza restino nel regno del desiderio. Ma con l’intensificarsi delle occasioni e dei bersagli (e gli agglomerati urbani, quanto più grandi e densi sono, maggiormente ne offrono) finisce che queste cose succedano per davvero. Oltre alle azioni individuali, anche la delinquenza organizzata trova maggiori sbocchi in una città dove ci sono più “polli” da spennare e più vittime da sfruttare, e di conseguenza aumentano quelli che tendono a delinquere. Questa situazione sempre più esasperata fa agire anche l’altra lama della cesoia: per sottrarsi agli abusi di cui si è bersaglio, ci si isola nella solitudine del proprio appartamento... Si finisce così per tagliarsi i ponti con la realtà circostante; si smette di contribuire alle attività costruttive, si abbandonano alla loro sorte i deboli. Con l’effetto di consentire che venga a chiudersi più e più la lama della violenza.
                                                                   Ugo Stornaiolo






 

 

 


 


 

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