Afghanistan, se rinasce il santuario
della Jihad
di Maurizio
Molinari*
“A rendere il ritorno dei talebani un
pericoloso modello di affermazione jihadista sono le sue
caratteristiche: avviene dopo 20 anni di guerriglia e dunque
dimostra la resilienza dei mujaheddin; è la conseguenza del
ritiro delle truppe Usa e Nato e così evidenzia la debolezza
strategica dell'Occidente; è reso possibile dalla diserzione
in massa di militari e poliziotti e quindi nasce dalla
inaffidabilità del governo nazionale”
A quattro anni dalla dissoluzione dello
Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi la riconquista dei
talebani di gran parte dell'Afghanistan - sono entrati a
Kabul - è una vittoria della Jihad globale perché
restituisce al fondamentalismo sunnita più estremo il
territorio di una nazione dove edificare il proprio modello
di Emirato basato sulla versione più oscurantista della
Sharia, la legge islamica.
Nella sfida jihadista "agli apostati ed
agli infedeli", iniziata con il patto fra Jihad egiziana di
Ayman al-Zawahiri e Al Qaeda di Osama bin Laden del febbraio
1998, il possesso di un territorio nazionale è stato sin
dall'inizio una priorità. Per tre ragioni convergenti: la
prima è militare perché significa disporre di una base
sicura da dove attaccare i propri nemici; la seconda è
economica perché il controllo di risorse e trasporti
consente di finanziarsi; la terza è ideologica perché
sottomettere un'intera collettività permette di evidenziare
la superiorità del modello jihadista sui governi musulmani
"corrotti", per non parlare delle "depravate" democrazie
occidentali.
Al-Zawahiri e Bin Laden trovarono questo
santuario jihadista nell'Afghanistan dei talebani del Mullah
Omar - che li ospitò, sostenne e finanziò fino a
consentirgli di organizzare l'attacco agli Stati Uniti
dell'11 settembre 2001 - ma dopo l'intervento americano la
base territoriale svanì, obbligando ciò che restava dei
gruppi jihadisti a cercare rifugio dall'Iraq alla Somalia.
Fino al giugno del 2014 quando Abu Bakr al-Baghdadi dichiarò
nella moschea di Mosul la nascita dello Stato Islamico su
vasti territori catturati in Siria e Iraq, e rimasti sotto
il suo controllo per poco più di tre anni fino a quando una
imponente coalizione militare internazionale - guidata da
Usa, Russia e Paesi arabi - portò alla caduta della capitale
Raqqa.
Ancora una volta, dopo quella sconfitta
militare, i gruppi jihadisti sono tornati a disperdersi,
tentando ovunque - dal Sahel al Corno d'Africa, dalla Libia
al Nord della Siria - di arrivare a controllare propri
territori, richiamandosi sempre in varia forma al progetto
di Emirato islamico o Califfato basato sull'interpretazione
più rigida della Sharia. Ora i talebani riescono
nell'impresa, riproponendo l'Afghanistan come epicentro
della Jihad globale a dispetto di rivalità di leadership,
differenze teologiche e ostilità tribali-militari fra le
diverse anime di una galassia di fondamentalisti violenti
che in comune ha solo il rifiuto della modernità teorizzato
dal teologo egiziano Hassan el-Banna nel 1924 per rigettare
l'allora decisione di Ataturk di abolire in Turchia
l'istituto del Califfato risalente alle origini stesse
dell'Islam.
A rendere il ritorno dei talebani
un pericoloso modello di affermazione jihadista sono le sue
caratteristiche: avviene dopo 20 anni di guerriglia e dunque
dimostra la resilienza dei mujaheddin; è la conseguenza del
ritiro delle truppe Usa e Nato e così evidenzia la debolezza
strategica dell'Occidente; è reso possibile dalla diserzione
in massa di militari e poliziotti e quindi nasce dalla
inaffidabilità del governo nazionale. Tutto ciò è destinato
a rafforzare identità, motivazione e reclutamento dei gruppi
jihadisti che operano in più Continenti - Europa inclusa -
riproponendo la minaccia del terrorismo più feroce. Bisogna
chiedersi dunque che cosa c'è all'origine della riconquista
talebana ovvero che cosa è andato storto in Afghanistan.
Non c'è dubbio che la scelta degli
Stati Uniti - presa dal presidente Donald Trump e confermata
dal successore Joe Biden - di ritirare le truppe sia stata
il detonatore dell'attuale escalation, comportando
l'abbandono a se stessa della debole nazione afghana, così
come la Nato è di fronte all'evidente fallimento della
transizione dei poteri alle leadership locali a cui ha
dedicato imponenti risorse. Ma gli errori lampanti e gravi
commessi dagli alleati occidentali non bastano a spiegare
perché gli afghani non si battono per evitare il ritorno dei
talebani, il cui terrore ricordano bene.
Nessuno più della popolazione afghana ha
patito per il regime medioevale che i talebani hanno imposto
dal 1996 al 2001, come nessuno più delle famiglie afghane sa
cosa significa per ogni donna tornare nella prigione del
burqa. Dunque perché soldati e poliziotti non combattono? La
risposta più evidente viene dalle cronache di Kabul: gli
afghani non hanno alcuna fiducia nel loro governo e ciò
significa che non sono bastati venti anni di imponenti aiuti
stranieri per far germogliare il rifiuto della Jihad nelle
viscere del Paese. E se non sono gli afghani a battersi per
loro stessi e per le loro libertà, nessun altro potrà farlo
con garanzia di pieno successo.
Poiché il conflitto con la Jihad
appare destinato a continuare e poiché le minacce per le
democrazie sono destinate a crescere proprio a causa della
ricostruzione del santuario dei talebani, è bene dunque
tenere a mente la feroce lezione che viene da quanto sta
avvenendo a Kabul: il jihadismo si può sradicare solo se i
musulmani trovano, nei singoli Paesi, la forza ed il
coraggio di rigettarlo per loro scelta e convinzione. È una
forza, morale e politica, che deve nascere da loro stessi e
che neanche il più potente degli eserciti potrà mai riuscire
a rimpiazzare.
* la Repubblica, 15 agosto 2021