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Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno" |
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Referendum, se la Costituzione resta
nascosta dietro una diatriba tutta politica
Mi sento come l’asino di Buridano. Mi
trovo davanti a due sacchi di fieno e due secchi d’acqua
uguali e a identica distanza. Su uno c’è un bel Sì e
sull’altro un bel No. Pensandoci e ripensandoci mi sento un
asino, ma non un asino qualunque: l’asino che occupa un
posto di rilievo nelle dotte discussioni medievali sul
libero arbitrio: l’asino di Buridano. Quell’asino, che sono
io, si trova davanti a due sacchi di fieno e due secchi
d’acqua fresca, perfettamente uguali e a identica distanza
da lui. Su uno c’è un bel SÌ e sull’altro un bel NO. Come
decidersi per l’uno o per l’altro? Per un momento, mi ricordo che, in tempi
non sospetti, condividevo l’opinione di coloro che pensavano
che il nostro Parlamento fosse pletorico. Avevo argomenti
che mi sembravano buoni. Innanzitutto, nelle assemblee
troppo numerose i talenti si confondono in masse senza
qualità. Le masse senza qualità, non agiscono ma sono
chiamate a reagire, cioè per far qualcosa devono essere
eterodirette. Dipendere da altri, tutti sono capaci. Nei
grandi numeri, i singoli si confondono e possono
nascondersi, non si considerano responsabili di ciò che
avviene, sviluppano spiriti gregari, sono numeri. I numeri,
nei consessi collettivi, sono direttamente proporzionali
alla irrilevanza. Mi sembrava che, se avessero chiesto a
qualcuno che ne sa di dinamiche collettive, come fare per
umiliare un organo quale un Parlamento, una delle prime cose
che avrebbe suggerito, magari pensando alla massa compatta e
grigia dell’Assemblea popolare cinese o del Congresso dei
deputati del popolo dell’Unione sovietica (migliaia di
persone), sarebbe stata di moltiplicare i numeri. Così,
l’asino si sarebbe incamminato verso il fieno e l’acqua
fresca del SÌ. Ora, però, si sostiene tutto il
contrario, cioè che la diminuzione del numero dei
parlamentari coincide con l’umiliazione del Parlamento. In
fondo, nel non detto, ci sarebbe il perenne virus
antiparlamentare del popolo italiano, che galleggia nel
fondo di ogni tentazione autoritaria o, versione aggiornata,
nel plebiscitarismo che si nasconde in certa democrazia
diretta. Il taglio parziale dei parlamentari, così, sarebbe
solo un rimedio momentaneo, in vista di un taglio ben più
radicale. Se fosse così, l’asino avrebbe invertito la marcia
verso il NO. Il quale NO si appoggia su quest’altra
considerazione circa le numerose funzioni che il Parlamento
deve adempiere: legiferare, indirizzare, controllare nei
campi più diversi, corrispondenti alle sempre più numerose
presenze dello Stato nella vita civile. Chi potrà esercitarle convenientemente,
se non ci saranno abbastanza persone a occuparsene, a
partecipare alle sedute dell’Aula, alle riunioni delle
Commissioni, eccetera? Sarà il governo con suoi atti che
sfuggiranno ai controlli che, in democrazia, sono necessari.
In breve, diminuire il numero dei parlamentari significa
aumentare i già cospicui poteri del governo: democrazia a
rischio. L’asino si rafforza ancor di più nella sua
convinzione per il NO. Come tutti gli asini, anche questo è
testardo. Ma non lo è, però, fino al punto dal non pensare
che ciò su cui deve decidersi è un taglio quantitativo, non
una abolizione, e che il resto è solo un processo alle
intenzioni. Non si decide su questioni costituzionali in
base a processi alle intenzioni, ma considerando la realtà
che sta al di là, tanto più che le intenzioni passano e le
riforme restano. Questo asino ha la memoria lunga e si
ricorda che il Parlamento, fino alla riforma costituzionale
del 1963 era meno numeroso (la Camera dei deputati, nella I
legislatura, ad esempio, era di 572) e ciò non ha mai fatto
lamentare difficoltà nell’esercizio delle funzioni dei
parlamentari. Ma, soprattutto, non gli è difficile
prendere atto dell’assenteismo, dell’incompetenza,
dell’anonimato, alla fine dell’irrilevanza di molti. Chi è
fuori del Parlamento si stupisce spesso di apprendere che
dentro ci stanno Tizio, Caio o Sempronio le cui opere sono
totalmente assenti e sconosciute. Prende corpo l’idea di
diminuire i numeri degli oziosi, valorizzando gli operosi.
Questa è altra questione che si risolve non parlando di
numeri, ma di qualità: una questione che bisognerà pur
porre, prima o poi. In ogni caso, ciò che è chiaro è che
l’argomento del carico di lavoro è specioso. E così la
propensione per il SI’ si rafforza. C’è poi la questione del rapporto
tra gli eletti e gli elettori, la questione della
rappresentanza democratica. Qualunque asino sa che tanto più
elevato è tale rapporto, tanto più evanescente è il rapporto
tra i primi e i secondi. Uno a uno sarebbe l’optimum; uno a
quaranta milioni (quanti siano gli elettori) sarebbe il
pessimum. L’uno e l’altro sarebbe assurdo: il primo sarebbe
il contrario della rappresentanza, il secondo coinciderebbe
con il dispotismo elettivo. Ma la cura di questo rapporto è
essenziale in democrazia e, perciò, il NO si manifesta
preferibile. Tuttavia, il rapporto di
rappresentanza è flessibile, non esiste un rapporto
“giusto”. Può variare a seconda dell’impegno dell’eletto,
degli strumenti di comunicazione che gli si mettono a
disposizione e, dall’altra parte, dalla capacità degli
elettori, singoli e organizzati attraverso associazioni,
partiti, sindacati, di far sentire la propria voce. Il
deputato che percorre in carrozza le strade polverose del
suo collegio per incontrare la sua gente è l’immagine
romantica d’un passato perduto. Se poi per rappresentanza
s’intende il deputato che richiede, per esempio, nel
question time, a cui il ministro o chi per esso risponde
leggendo un foglio preparato dagli uffici, si capisce che la
“rappresentanza” può essere cosa assai più seria di così. Le
ragioni del no in nome del sacro principio della
rappresentanza non sono allora così evidenti e avanzano di
nuovo quelle del SI’. Insomma, alla fine questo asino al quale
ho imprestato la mia asinità, a forza di girare di qua e di
là è sconcertato, non sa dove rivolgersi e, forse,
concluderà perfino di non avere né fame né sete e, così,
preferirà voltarsi e andarsene altrove, mettendo fine al
rovello al quale lo si è voluto sottoporre per saggiare in
che consista il suo libero arbitrio. Ultima considerazione: alla fine si
deciderà per ragioni che hanno poco a che fare con quelle
propriamente costituzionali: fare un favore a questo o un
dispetto a quello; rafforzare un partito rispetto ad altri;
consolidare la maggioranza o indebolirla; mettere in
difficoltà una dirigenza di partito per indurla a cambiare
rotta e, magari, a cambiare governo o formula di governo.
Ma, allora, quell’asino, per quanto asino sia, avrà
un’ulteriore ragione per starsene costituzionalmente sulle
sue.
*La Repubblica, 23 agosto 2020
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