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Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno" |
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Caso Cucchi. Fra omertà e giustizia il momento
spartiacque che riscatta lo Stato
di
Flavia Perina*
La magistratura che non si rassegna a
un'inchiesta finita senza colpevoli può segnare la fine
dell'epoca in cui le istituzioni proteggevano funzionari
infedeli o nascondevano delitti. È caduto il muro, dice Ilaria Cucchi, ma
forse nemmeno lei sa quanto alto e quanto antico fosse
questo muro: un uomo in divisa che confessa e riscrive una
insostenibile verità di Stato, in Italia, non si era visto
mai. Anche per questo il caso di Stefano resterà come
spartiacque, come evento che segna il prima e il dopo. Il prima è la lunghissima storia delle
ricostruzioni di comodo, l'era in cui le istituzioni si
difendevano proteggendo col loro mantello funzionari
infedeli, azioni riprovevoli, talvolta veri delitti. Il dopo è questo: la magistratura che
non si rassegna a un'inchiesta finita senza colpevoli, i
periti che non si stancano di sollevare dubbi, il
susseguirsi dei processi in un crescendo di pressione, e
infine un carabiniere che sceglie di rompere l'omertà e un
altro, Francesco Tedesco, il militare che ieri ha finalmente
raccontato il pestaggio, che si decide e parla. E in qualche
modo il segnale di una potenziale rivincita dello Stato, di
una possibile riappropriazione del potere di fare ordine e
giustizia anche in casa propria, senza infingimenti. La sua portata è chiara leggendo le
mille dediche lasciate sulla bacheca di Ilaria, omaggi non
solo al suo coraggio ma anche a storie antiche che hanno
avuto esito diverso. C'è la ballata di Franco Serantini,
l'anarchico ventenne che nel 1972, dopo un brutale fermo a
Pisa, uscì dal carcere morto: trauma cranico e lesioni
interne di ogni tipo, nessun colpevole. Ci sono le foto di Giorgiana Masi, il
prototipo della vittima innocente: aveva diciotto anni nel
1977, manifestava per il divorzio insieme ai Radicali, fu
freddata da un proiettile forse sparato da uno degli agenti
infiltrati (una pratica dell'epoca) nel corteo. Anni di
indagini, niente di fatto. Anche in quei casi, così come nei molti
successivi, ci furono mobilitazioni, comitati, si mosse -
assai più di adesso - la politica, la musica,
l'associazionismo, e non successe niente. Se si dovesse fare un film, a
quarant'anni di distanza, si dovrebbe usare il trucco di
ogni sceneggiatura ambigua: le immagini che sfocano pian
piano, i volti che si confondono, la musica che sale per
farci capire che sta succedendo qualcosa di indicibile, che
è facile intuire ma non si conoscerà mai fino in fondo. A questa lunga catena di nebbiose verità
di Stato, ora interrotta da una verità senza aggettivazioni,
vanno senz'altro aggiunti due casi quasi contemporanei alla
vicenda Cucchi, quelli di Federico Aldrovandi, il
diciottenne di Ferrara brutalmente fermato dopo una notte
per locali, pestato e poi morto per soffocamento prima
ancora che arrivasse l'ambulanza, e di Giuseppe Uva, il
quarantenne uscito senza vita da una caserma di Varese dopo
il fermo per ubriachezza. La mamma di Aldrovandi e la moglie
di Uva per molto tempo hanno manifestato insieme con Ilaria
Cucchi per chiedere indagini oneste e un processo vero, ma
non hanno avuto fortuna. Le foto di quelle donne, così
diverse per età, ceto, estrazione culturale, immobili sotto
al Parlamento, ai ministeri o davanti ai tribunali coni loro
cartelli di denuncia, hanno rappresentato per mesi una
tragica Spoon River della giustizia negata, la nostra
piccola, indecente Plaza De Mayo. In molti, qualche settimana fa, si
sono stupiti del grandissimo successo popolare che ha avuto
"Sulla mia pelle", il film di Alessio Cremonini che racconta
con gelida aderenza ai verbali di inchiesta l'ultima
settimana di vita di Stefano Cucchi. Migliaia di spettatori
nelle proiezioni ufficiali, nei licei, nelle università,
oltreché su Netflix dove è tuttora uno dei titoli più
cuccati, e forse la ragione di questo desiderio collettivo
di sapere va cercata proprio nella lunghissima serie di casi
senza verità che, generazione dopo generazione, hanno scosso
l'immaginario collettivo e diffuso l'idea che la giustizia,
quando c'è dimezzo una divisa che si scontra con un
cittadino comune, abbia un gradiente diverso e preveda
speciali e opache guarentigie. La vicenda del G8 di Genova e
della "macelleria messicana" della caserma Diaz (la
definizione è di un vicequestore, Michelangelo Fournier, tra
i pochi che ruppero il silenzio) incardinò questa percezione
quasi vent'anni fa, e da allora nulla l'ha smentita. Sono
cambiati i tempi, i governi, i capi delle forze dell'ordine,
i ministri, è cambiato un mondo intero ma mai c'è stata una
vicenda alla quale appendere la possibile rivincita
dell'uomo della strada, quello che crede o vorrebbe credere
nell'equidistanza dello Stato, rispetto all'antico "sopire e
troncare" manzoniano. Adesso quella chances c'è, lo Stato ne
esce rafforzato, i carabinieri possono cancellare una
macchia che sembrava indelebile: se è presto per dire che
comincia un altro corso, la strada è finalmente visibile e
aperta. *La Stampa, 12 ottobre 2018,
p.5
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