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Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno" |
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Il pestaggio di Ostia che ora può costare caro ai padroni del quartiere senza Stato
di Carlo Bonini *
Una scritta in Via Stornelli ROMA. Ci sono municipi, a Roma, che si
annunciano con un murales, una targa rionale, uno sberleffo
o semplicemente con il raggelante nulla dei falansteri in
cemento armato. E poi ce ne è uno — Ostia — su cui da tempo
immemore la città e la sua pubblica amministrazione hanno
perso ogni sovranità. Che parla un’altra lingua. Quella di
chi di Ostia è uno dei padroni. La lingua dell’adesivo —
«Kittesencula» — che addobba le chiappe delle Vespe o i
posteriori di qualche Suv. Dei roghi della Mafia dei chioschi sul
lungomare. Della coca e dell’hashish a quintali che arriva
dalla Spagna e che viene “spinta” in ogni angolo della
città. La lingua di Roberto Spada e del suo clan di antica e
ormai sbiaditissima origine Sinti. «Nummene fotte ‘n cazzo»,
dice al giornalista di Nemo Daniele Piervincenzi, prima di
“partirgli di capoccia” e spaccargli il setto nasale perché
«so’ du’ ore che stai a rompe co’ le domande». Già, «Fatte li cazzi tua», a Ostia, è
innanzitutto un consiglio, prima ancora che una minaccia. Un
buffetto che anticipa di un istante la capocciata o il colpo
di spranga. È saggezza mafiosa dispensata a chi fa domande
sulle famiglie della zona a un cameriere in un bar (accadde
nella centralissima gelateria “Sisto” nel lontano 2012,
durante il lavoro di ricerca per il libro “Suburra”) e, a
maggior ragione, al cronista che non abbassa lo sguardo (la
nostra Federica Angeli, sotto scorta da anni, e i cui figli
sono stati minacciati di morte proprio da Roberto Spada). Perché, a Ostia, i giornalisti sono
appena un gradino sotto «le guardie» e uno sopra gli
«infami». Sempre e comunque «mmmerde», come amabilmente
chiosa la claque social che, puntualmente, a ogni
aggressione, a ogni intimidazione, si stringe solidale sui
profili Facebook intorno all’aggressore. A maggior ragione
se porta quel cognome. Spada. A maggior ragione se abita in
quel ghetto nel ghetto alle spalle del Porto turistico di
Roma, che porta il nome di “Nuova Ostia”, sul lungomare di
Ponente. Nei casermoni anni ’70, dove le assegnazioni e gli
sfratti non li decide il Comune ma gli Spada, appunto. A Ostia — trenta chilometri in linea
d’aria dal Quirinale, Montecitorio, Palazzo Madama — lo
Stato, la Politica, la pubblica amministrazione, sono un
simulacro. Il che ne spiega il suo scioglimento per mafia e
il suo successivo commissariamento. A Ostia, il Mondo di
Sotto si è mangiato da un pezzo quello di Mezzo e quello di
Sopra. Rompendo, se necessario con le armi, fragili paci e
instabili equilibri raggiunti con le organizzazioni
criminali tradizionali, ‘Ndrangheta e Cosa Nostra. E questo
mentre la giustizia penale ha discettato per lustri — e
tutt’ora discetta — se si tratti o meno di Mafia. Già, dici Spada e pensi ai
Casamonica della Romanina, con cui sono imparentati. Dici
Ostia e pensi ai Fasciani e al narcotraffico. Dici Spada e
capisci perché nel giorno del voto per il rinnovo del
consiglio e della Presidenza del Municipio sono rimasti a
casa due abitanti di Ostia su tre. Perché qui tutti hanno un
prezzo e tutto ha un prezzo. E la politica, storicamente dal
voto “nero”, non solo non ha mai conosciuto la lettera
maiuscola, ma ha sempre parlato il linguaggio del baratto. Cominciò Gianni Alemanno
promettendo casinò e una pista da sci artificiale sul mare.
Ostia come Atlantic City. Poi arrivò Ignazio Marino, «er
marziano», che di Ostia conosceva «le splendide dune» e
immaginava oasi naturalistiche in casa dei diavoli. E poi
Virginia Raggi, che non pensava assolutamente nulla, buona
per qualche comparsata, e a cui, non più tardi dell’aprile
scorso, una cittadina, Carmela De Marco, proprio dalle
colonne di Repubblica, scriveva: «Cara sindaca, lei è venuta
ad Ostia e ha detto che va tutto bene. Ma lei è per caso il
sindaco di New York? È venuta a 400 passi dal mio bar finito
otto mesi fa nelle mani degli Spada e della rete dei loro
complici e si permette di dire che va tutto bene?». Appena il 4 ottobre scorso, per il
racket delle case popolari di Nuova Ostia sette maschi del
clan Spada si sono presi condanne in primo grado dai 5 ai 13
anni con l’aggravante del metodo mafioso. In gennaio,
Armando Spada, cugino del capo del clan (Carmine, condannato
a 10 anni nel 2016 per estorsione con l’aggravante mafiosa),
ne aveva avuti 6 di anni per essersi appropriato «con metodo
mafioso» di uno stabilimento. «Embé», devono aver pensato i
maschi rimasti in libertà. Perché in fondo, a Ostia, è
sempre girata così. Un po’ di casino e poi buonanotte al
secchio. Almeno fino alla capocciata di Roberto. Perché
forse — come confidava ieri sera uno sbirro che a Ostia ne
ha viste tante, forse troppe — «stavolta l’hanno proprio
fatta fuori dal vaso». Un po’ come il funerale dei
Casamonica sotto una pioggia dal cielo di petali di rose
elitrasportate. Che, detta così, è una cosa che dovrebbero
capire anche a Nuova Ostia. *laRepubblica.it, 9
novembre 2017
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