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Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno" |
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Stop all’invasione di Kirkuk:
difendiamo i curdi di Bernard-Henri Lévy* Ieri mattina, 16 ottobre, si è
avverato quel che si temeva: unità paramilitari,
appoggiate da alcuni elementi dell’esercito
iracheno, hanno attaccato nella zona di Kirkuk. Il
presunto esercito «federale» di Bagdad ha messo in
atto le proprie minacce e, pur col rischio di
rovinare per sempre le possibilità di una
coesistenza con i curdi, ha risposto al referendum
pacifico dell’ultimo 25 settembre con un’azione di
forza vendicativa. Là dove ieri Saddam Hussein si
era dato da fare con gas e deportazioni, oggi ci
sono gli altri, i suoi successori sciiti al soldo di
Teheran che inviano i carri armati, l’artiglieria e
i katiusha contro le aree petrolifere e quindi
contro il polmone vitale del Kurdistan.
Oggi come ieri, lo scandalo
raddoppia, grazie al fatto che i Paesi «amici» dei
curdi, quelli che per due anni hanno fatto
affidamento su di loro per tenere testa e mettere in
scacco Daesh, mentre mi trovo a scrivere queste
poche righe non rispondono in altro modo che con un
silenzio assordante ed hanno l’aria di voler
abbandonare alla propria sorte tutti questi uomini e
donne che si sono battuti anche per loro. Che si sia
favorevoli o meno a questo referendum, del quale il
presidente Barzani ha sempre detto non essere altro
che il preludio democratico ad un negoziato con
Bagdad, non è accettabile che il prezzo da pagare
sia un atto di forza che va ad aggiungersi al blocco
aereo e delle frontiere, alle misure di ritorsione
economica e alla trasformazione del territorio curdo
da due settimane in una prigione a cielo aperto. Che si sia a favore o contro
l’indipendenza del Kurdistan, a favore di una
sovranità totale o limitata, una cosa va al di là
dell’immaginabile: ovvero che si risponda a
un’offerta di dialogo con l’invasione e che un Paese
intero possa essere preso per la gola come nulla
fosse. Anche se gli scontri dovessero segnare il
passo nelle prossime ore, è necessario un
avvertimento solenne per la comunità internazionale,
affinché vada ad intimare all’Iraq (e anche ai suoi
mandanti iraniani e al suo alleato di circostanza,
il leader turco Erdogan): «Stop all’aggressione!
Ritiro immediato delle milizie e delle forze
regolari sulle linee attestatesi prima del 15
ottobre».
Nel momento in cui si parla di
una avanzata volta ad accerchiare e quindi
asfissiare la seconda città del Kurdistan,
accompagnata dalla nona divisione corazzata
irachena, dalla polizia federale e da unità del
contro-terrorismo, è necessario che i Paesi
occidentali e, in primo luogo, gli Stati Uniti e la
Francia alzino la voce, e molto velocemente, per
esigere un cessate-il-fuoco e denunciare al mondo
questa Danzica del Medio Oriente. Se, poi, le forze irachene e le
milizie Assai’B Ahl al-Haq non dovessero
ottemperarvi, e se i Peshmerga, contrariamente alle
regole di condotta che si sono imposti finora,
dovessero contrattaccare, a quel punto sarebbe
necessario che le forze internazionali presenti sul
terreno per la lotta contro il Daesh andassero ad
interporsi con la massima urgenza. Per anni i curdi
sono stati quasi soli, su un fronte lungo mille
chilometri, a svolgere le funzioni di nostro
baluardo contro la barbarie. Nell’estate del 2014, quando
l’esercito iracheno era allo sbando di fronte alle
truppe del Califfato, sono stati loro a tenere le
posizioni ed a riprendersi il terreno abbandonato.
Se poi oggi sono a Kirkuk, sia chiaro che ci si
trovano perché lì sono sempre stati la maggioranza
fino all’arabizzazione forzata di Saddam Hussein, e
soprattutto perché dobbiamo a loro e soltanto a loro
che la città non sia diventata, come Mossul e Raqqa,
un altro feudo degli islamisti. Andare a portar
soccorso oggi è una questione, per dirla in altri
termini, non soltanto d’onore, ma di giustizia. Da una parte un’inquietante
banda dei quattro (Iran, Turchia, Siria, Iraq) con
il collante dell’odio per la democrazia e i diritti
umani; dall’altra un piccolo grande popolo che non
aspira ad altro che alla libertà, la sua, ma anche
la nostra, e senza mire di frazionamento degli
imperi vicini. Quale cecità o quali bassi
calcoli potrebbero portarci a stare in equilibrio
tra le due fazioni? Da un lato abbiamo un gruppetto
di dittature con le quali siamo impegnati in un
rapporto di forze che non può in nessun caso
permetterci di abbassare la guardia e di cedere sui
principi e, dall’altro, un popolo che resiste da un
secolo a tutti i tentativi di sottomissione ed il
cui crimine, oggi, è quello di esprimere il
desiderio di vivere in una società fedele ai
principi che noi consideriamo nostri. Chi è che si opporrà ad
una risoluzione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza
contro questa guerra lanciata da Bagdad mentre il
cadavere di Daesh è ancora caldo? Non abbandoniamo
il Kurdistan, che è l’unico vero polo di stabilità
della regione. Non lasciamo che la sua popolazione
venga presa in ostaggio assieme al milione e mezzo
di rifugiati cristiani, yezidi, e arabi che vi hanno
trovato asilo. Tendiamo velocemente una mano
fraterna a questo popolo esemplare che dopo un
secolo di sofferenza credeva di poter finalmente
vedere la fine del tunnel. (traduzione di Luca Calvi
- Studio Effe) *CORRIERE della SERA
17/10/2017
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