Combattere per dare un senso alla
vita
ControVerso
di Nuccio Ordine*
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«Ho combattuto, è già
molto […]. È già qualcosa l’essersi cimentati:
la vittoria, mi sembra, è nelle mani del Fato;
per quel che mi riguarda ho fatto il possibile e
ciò che mi appartiene non lo potranno negare né
i secoli futuri né ciò che appartiene al
vincitore cioè il non aver temuto la morte ed il
non aver consentito ad alcun mio simile di
anteporre una morte gloriosa ad una vita
imbelle»
Giordano Bruno
(1548-1600), La monade, il numero e la
figura, in Opere latine, a cura di
Carlo Monti, Utet, [VII], pp. 376-377
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Nel trattato
De monade numero et figura (pubblicato nel 1591 a
Francoforte assieme a due altre opere latine, il De
minimo e il De immenso), Giordano Bruno
analizzala “monade” («sostanza indivisibile delle cose» p.
76) e alcune questioni che legano matematica e geometria
alla filosofia e a una “numerologia” simbolica (le
relazioni, per esempio, che alcune figure geometriche
intrattengono con i “numeri” da cui derivano).
Una prospettiva che non ha niente
in comune con la ragione calculatoria del «gregge dei
matematici o dei geometri»: qui si indagano «i numeri della
natura» e «le figure naturali, per mezzo delle quali,
l’ottima madre, distingue le rispettive virtù e proprietà»
(p. 304). Ma l’autore – cosciente delle difficoltà che potrà
incontrare l’inesperto lettore: «Questo libro è difficile,
lo confesso, anzi per chi non sa leggere tale scrittura
riconosco che è addirittura impossibile a leggersi» (p. 305)
– ci regala comunque stupende riflessioni sulla vita e sulla
ricerca del sapere nella dedica a Enrico Giulio (duca di
Brunswich e Wolfenbüttel,) e in diverse pagine disseminate
negli undici capitoli. Elogiando le qualità del «prìncipe
eccelso», il filosofo coglie l’occasione per ricordare a
coloro «che impugnano lo scettro» di esercitare il potere
«senza calpestare» i più deboli: «Te non creò Dio per
disprezzare i popoli che ti devono
riverire, né ti ha comandato di calpestare coloro che ti
devono rispettare, come, invece, è costume di un non piccolo
numero di potenti che impugnano lo scettro come strumento
per asservire il popolo negletto». Per Bruno, infatti,
«niente è più grave dell’arbitrio dei potenti; l’avida,
rozza stirpe, potendo arbitrariamente crearsi i propri
diritti, crede di toccare il cielo e di poter impunemente
calpestare ogni diritto» (p. 299). Ai doveri dei prìncipi,
corrispondono anche i doveri che ogni singolo individuo ha
nei confronti di se stesso. Innanzitutto, la battaglia
quotidiana per dare un senso alla propria vita: «Come potrà
essere piacevole la vecchiaia anche per un intelletto ben
dotato, se la vita è stata trascorsa inutilmente e la
giovinezza se ne è volata via insulsamente?» (p. 376). Una
vita degna coincide con i nobili obiettivi che ogni essere
umano si propone di abbracciare («Non ti scoraggino gli
ostacoli che ti si possono presentare, dal momento che
qualunque impresa è possibile per chi la vuol fare: niente è
facile che non riesca difficile per chi lo fa contro
voglia»). Non è decisivo, però, raggiungere la meta. È molto
più importante compiere il percorso con dignità e con onore:
«tuttavia, pur non vincendo, sii ugualmente degno della
vittoria e degno di sederti accanto al vincitore». Se viene
meno la tua dignità fisica o morale, allora è meglio «una
morte gloriosa». La “soglia” attraverso cui precipitiamo in
una «vita imbelle» non può essere imposta da altri (né dalla
religione, né dallo Stato). Ecco perché – come sottolineava
giustamente qualche anno fa Roberto Saviano citando questo
passo autobiografico di Bruno – è necessario riconoscere a
ogni essere umano la libertà di decidere della propria vita.
* Sette,
Corriere della Sera, 31 marzo 2017, p. 89