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Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno" |
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Beppino Englaro: «Dieci anni fa
ero solo, oggi il Paese è pronto»
di Stefania Rossini *
«Quando ho iniziato la battaglia
per Eluana attorno a noi c’era soltanto il deserto.
Adesso la maggioranza degli italiani è favorevole al
testamento biologico. E il Parlamento?» Se c’è un uomo che incarna su di
sé tutto il travaglio della mancanza di una legge
sul testamento biologico, questi è Beppino Englaro.
La sorte gli ha sottratto l’unica figlia, Eluana, in
un incidente d’auto nel lontano 1992, lasciandogli
soltanto un corpo condannato a uno stato vegetativo
permanente. L’arretratezza delle istituzioni, la
sordità emotiva dell’opinione pubblica e
l’opposizione spesso sgraziata della politica, lo
hanno impegnato in una battaglia ventennale per
ottenere che quel corpo fosse lasciato andare alla
sua morte naturale. Come Eluana avrebbe voluto,
secondo la testimonianza della famiglia e degli
amici, e come pietà sempre vorrebbe. Ci è riuscito
soltanto nel 2009, forte di una sentenza definitiva
a suo favore e dell’aiuto di medici e giuristi,
proprio mentre il Parlamento discuteva un
precipitoso disegno di legge per impedire la
sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione ai
pazienti in coma. Un colpo di scena finale degno di
una tragedia dei nostri tempi che tenne gli italiani
con il fiato sospeso ed ebbe il merito di
costringerli a guardare in faccia il problema della
libertà di scelta alla fine della vita. Dopo otto anni dalla morte di
sua figlia Eluana, si discute finalmente una legge
sul testamento biologico. Pensa che oggi il Paese
sia pronto ad accettarlo? «Il Paese ha dimostrato da tempo
di essere pronto. Ho paura che sia il Parlamento a
non esserlo. Si minacciano già migliaia di
emendamenti. Ma l’opinione pubblica vuole questa
legge». Lei invece che situazione si
trovò di fronte? «Il deserto. Scoprii subito che
la medicina è al servizio della non-morte, piuttosto
che della persona, della sua complessità e
interezza. Chiedevo ai medici di non accanirsi sul
corpo di mia figlia, mi rispondevano che il loro
diritto ad agire su di lei era dettato dalla
scienza, dalla coscienza e dalla cultura della vita.
Era come se dicessero: “È così perché è così!
L’unico diritto che hai è quello di non aver nessun
diritto”. Mi sentivo un randagio che abbaiava alla
luna». Che cosa l’ha spinta a
continuare a battersi? «La certezza della volontà di
Eluana. Era una ragazza forte e determinata con le
idee chiare sulla vita e sulla morte. Appena un anno
prima del suo incidente, c’era stato quello di un
suo amico e coetaneo, anch’egli in coma
irreversibile. Mia figlia andò in chiesa a pregare
perché il suo amico morisse. La sua reazione mi fece
ricordare un pensiero di Sciascia: “A un certo punto
della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma
il morire è l’ultima speranza”». Qualcuno all’epoca si domandò
perché tanto clamore, perché non si portò Eluana a
casa per lasciarla morire, come sovente si fa. Torno
a chiederglielo oggi: perché scelse la battaglia
pubblica? «Non avevo scampo. Mia moglie ed
io avevamo preso da subito una posizione palese
contro il fronte del no, se l’avessimo portata a
casa, avremmo sollevato il finimondo». Quando il caso diventò di
dominio pubblico, fu normale chiedersi che cosa
avrebbe fatto ciascuno di noi in una situazione
simile. Colpiva la vostra determinazione, l’assenza
di conflitto. «Infatti non ce ne fu. Dovevamo
rispettare la volontà della nostra creatura. La
madre, che viveva in simbiosi con lei, le è rimasta
sempre accanto, fino a spegnersi dopo la sua morte.
A me è toccata la battaglia con i medici, la
magistratura, la politica». Fu proprio la politica la più
accanita. Che reazione ebbe quando sentì Berlusconi
asserire che Eluana sarebbe stata in grado di
procreare? «Provai una gran pena. Quella
frase suscitò il ribrezzo di molti, ma a me sembrò
pronunciata da un poverino, forse mal consigliato,
che non sapeva quello che diceva». Anche altri non si
contennero quando sua figlia morì in pieno dibattito
parlamentare. Gaetano Quagliariello urlò: “Eluana
non è morta. Eluana è stata ammazzata!”. «Ancora adesso non capisco
come si può arrivare a quei livelli. Era la peste
del linguaggio che si diffondeva a macchia d’olio. E
ci fu anche chi, oltre a urlare, agì brutalmente,
come l’allora ministro della Salute, Maurizio
Sacconi, che giunse a ricattare le strutture
nazionali sanitarie che si fossero prestate a far
riprendere a Eluana il processo del morire, come
aveva decretato la Corte di Appello di Milano». Si è mai spiegato il perché di
tanto accanimento? «Nella migliore delle ipotesi,
si tratta di persone che ritengono di vivere in uno
Stato etico e interpretano le leggi e i codici sotto
questa luce. Del resto, già tra i padri costituenti,
uomini con diverse concezioni potevano avere idee
simili sul tema della vita e della morte. Alcide De
Gasperi, come cattolico, pensava che la vita non è
disponibile. Palmiro Togliatti, da ideologo
comunista, credeva che la vita non è tua, ma è della
società». Ora che le ideologie sono
spente, forse avremo finalmente una legge sul fine
vita e lei potrà considerare doppiamente conclusa la
sua battaglia. «Speriamo. Sento parlare
di eutanasia, che continua ad essere evocata a
sproposito e in mala fede perché non ha niente a che
vedere con le disposizioni anticipate di volontà che
ciascuno potrà dare sulla propria morte. Eluana è
stata tenuta in vita in modo forzoso per 17 anni e
22 giorni. Mi auguro che a nessuno sia più riservata
la sorte terribile di rimanere “priva di morte e
orfana di vita”, come scrisse Guido Ceronetti in una
delle sue “Ballate dell’angelo ferito” dedicata
proprio alla mia Eluana»
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