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Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno" |
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Le banche da salvare e la
povertà dimenticata di Chiara Saraceno
Ci sono molte buone ragioni perché lo Stato
intervenga a sostegno delle banche. Accanto alla protezione
dei piccoli risparmiatori ingannati da impiegati senza
scrupoli e soprattutto da amministratori non particolarmente
competenti, occorre anche evitare un effetto domino
sull'intero sistema creditizio italiano, con conseguenze
devastanti sulla tenuta dell'economia del Paese. Anzi, come
è stato osservato da più parti, nel caso Monte dei Paschi
l'intervento è stato troppo tardivo e preceduto da decisioni
pasticciate e inefficaci, che hanno fatto ulteriormente
alzare il prezzo del salvataggio. In questa vicenda rimane tuttavia lo
sconcerto per l'enorme scarto che c'è tra i fondi stanziati
per questo e precedenti salvataggi più o meno riusciti,
uniti alla inefficacia dei controlli e alla incompetenza
degli "esperti", e l'estrema riluttanza con cui si procede
nel campo delle politiche sociali, che pure dovrebbero
essere considerate una forma indispensabile di investimento
(in capitale umano e sociale). Che si tratti di nidi per la
prima infanzia, della diffusione delle scuole a tempo pieno
soprattutto nelle aree più povere ove oggi sono quasi
assenti, dei servizi per le persone non autosufficienti o
del contrasto alla povertà, il refrain ripetuto è che ci
sono le norme sull'austerity da rispettare e che i fondi
necessari possono solo derivare da risparmi e tagli. Sono la prima a dire che occorre
eliminare gli sprechi e la frammentazione nelle politiche
sociali, cui lo stesso governo Renzi ha contribuito con la
sua politica dei bonus, non in nome del risparmio, ma
dell'equità e dell'efficacia. Tuttavia razionalizzare non
basta se le risorse di partenza sono inadeguate rispetto al
bisogno. Non si può non segnalare l'enormità della
differenza tra i 5 miliardi e rotti (sui 20 complessivi del
fondo salva banche) destinati a salvaguardare circa
quarantamila piccoli risparmiatori di Mps a fronte del
miliardo circa stanziato in legge di Stabilità per
l'istituzione di un Reddito di inclusione (Rei) per chi si
trova in povertà assoluta, un settimo di quanto sarebbe
necessario per portare sopra la soglia della povertà
assoluta il milione e 582 mila famiglie (4 milioni e 598
mila persone) che attualmente ne sono al di sotto. L'esiguità delle risorse messe a
disposizione a sua volta motiva l'introduzione di
condizionalità talvolta assurde e controlli sui beneficiari
ben lontani da quelli esercitati sui responsabili dei
disastri bancari e non, i cui costi pure gravano sulla
collettività. Con il risultato non solo di ledere la dignità
dei beneficiari, ma di escludere molti che pure avrebbero
bisogno di sostegno. È un rischio già visibile
nell'antesignano del Rei, il Sia (Sostegno di inclusione
attiva) che da settembre è stato esteso a tutti i Comuni.
Non basta, infatti, accanto a una soglia di reddito più
bassa della povertà assoluta, il requisito della presenza in
famiglia di almeno un figlio minore, o di una donna incinta,
che esclude in partenza, a parità di reddito, chi non
presenta queste caratteristiche. Un complicato sistema di
punteggi discrimina ulteriormente tra i potenziali
beneficiari, per ridurre la quota degli "aventi diritto".
Per altro, c'è il rischio che neppure questo embrione di
reddito minimo per i poveri veda la luce, dato che la legge
delega che dovrebbe istituire il Rei è stata approvata dalla
Camera in luglio, ma è da allora in attesa di approvazione
del Senato (che non l'ha ancora calendarizzata) e non è
stato ancora predisposto il piano nazionale contro la
povertà di cui il Rei è solo un - importante - tassello. Non vi è, per ora, alcun segnale che
governo e Parlamento abbiano tra le priorità quella di
concludere l'iter che porterebbe finalmente l'Italia ad
avere tra i propri strumenti di politica sociale un parziale
sostegno al reddito per chi si trova in povertà. È una
preoccupazione condivisa anche dall'Alleanza contro la
povertà, che ha pubblicato un appello a Parlamento e governo
perché l'instabilità politica non venga fatta pagare ai più
poveri. Eppure, anche lasciando da parte le questioni di
equità, lungi dall'essere spesa improduttiva, l'introduzione
del Rei costituirebbe un investimento dagli effetti positivi
sull'economia, dato che si tradurrebbe in aumento diretto
dei consumi. È anche, se non soprattutto, nella
persistente presbiopia di governo e Parlamento a sfavore di
chi è in difficoltà nella vita quotidiana che si annidano le
cause sia del populismo sia della disaffezione per la
partecipazione politica e del disinteresse per un bene
comune che appare troppo spesso il privilegio di altri. la Repubblica, 29 dicembre
2016
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