Dignità è democrazia
Solo la dignità potrà salvare la
democrazia. Dal lavoro al web, dalla famiglia al fine vita.
Stefano
Rodotà
intervistato da Simonetta
Fiori
Perché oggi si parla molto
di dignità?
«È la parola che evoca direttamente
l’umano, il rispetto della persona nella sua integrità. Ed è
ancora più immediata di parole storiche come eguaglianza,
libertà, fraternità. C’è una bellissima frase scritta da
Primo Levi: per vivere occorre un’identità, ossia una
dignità. Senza dignità l’identità è povera, diventa ambigua,
può essere manipolata».
Ma la parola rischia di essere
contraddetta dai fatti. L’Ue, ad esempio, esordisce nella
sua carta dei diritti fondamentali con il termine dignità.
Ma sembra dimenticarsene con i migranti, alzando muri.
«Sì, c’è uno scarto fortissimo. Quando
nel Duemila è stato scritto quel documento, nel preambolo si
è voluto rimarcare che l’Europa pone al centro della sua
azione la persona. Lo sta facendo? No. Una contraddizione
che incrina il patto cittadini-istituzioni».
Una promessa non adempiuta.
«Con conseguenze molto gravi. Il mancato
rispetto della dignità produce un effetto di
delegittimazione. Tu non mi riconosci nella mia pienezza di
persona degna e io non ti riconosco nella tua sovranità
istituzionale. Da qui la rabbia sociale che alimenta il
terrorismo e il caos geopolitico. Difendere la dignità è
difendere la democrazia».
La parola dignità ha segnato l’epoca
successiva alla seconda guerra mondiale.
«Non è un caso che quando
la Germania ha cercato un termine per
reagire alla devastazione nazista ha trovato proprio
dignità. Compare nel primo articolo della costituzione. E
compare nella carta costituzionale dell’altro grande
sconfitto, l’Italia».
In Italia la parola acquista una
coloritura più forte.
«Sì, le si affianca un attributo fondamentale: dignità
sociale. La dignità è anche nel rapporto con gli altri. Tu
non puoi negarla al prossimo nel momento in cui la
rivendichi per te stesso. I costituenti italiani strapparono
la dignità da una condizione di astrattezza, fornendole una
solida base materiale. Prendiamo l’articolo 36: il
lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla
qualità e alla quantità del suo lavoro e sufficiente a
garantire a sé e alla sua famiglia un’esistenza dignitosa.
Cosa volevano dire i nostri padri? La dignità non è a costo
zero. Esistono diritti che non sono a costo zero».
L’aver introdotto nella nostra carta il
pareggio di bilancio indebolisce questi diritti?
Non c’è dubbio. L’articolo 81 è un vincolo fortemente
restrittivo e non necessario. Giustificato con il solito
ritornello: ce l’ha chiesto l’Europa».
La crisi economica ha
giocato contro.
«Sì. Ma ha inciso soprattutto la pretesa di spostare nella
sfera economica il luogo dove si decidono i valori e le
regole. Questo ha comportato uno spostamento del potere
normativo: poiché sono io quello che gestisco il danaro e
investo, sono io che detto le regole. Il tramonto dello
Stato costituzionale dei diritti».
La dignità è una parola flessibile,
adatta alla contemporaneità liquida. Come cambia nell’epoca
della tecnologia?
«Un primo importante cambiamento riguarda la costruzione
stessa dell’identità. Quando io posso raccogliere una serie
di informazioni su una persona, e sono anche in grado di
fare valutazioni prospettiche - se ha fatto questo, farà
anche quest’altra cosa - in sostanza io sto partecipando
alla costruzione della sua identità».
L’identità e dunque la dignità vengono manipolate. Ma c’è
un’altra offesa della dignità che riguarda le persone che
mettono in piazza la propria intimità. Con esiti che possono
condurre al suicidio.
«Qui entriamo in
un terreno molto complicato. Quando io metto in circolazione
delle informazioni che mi riguardano devo sapere che la rete
determina effetti di moltiplicazione. E quando io ricevo
informazioni che riguardano altre persone dovrei riconoscere
una sfera privata che non posso manipolare».
Ma come si tutela la
dignità dei sentimenti in rete?
«La prima cosa che mi viene da dire: tieniteli per te. Ma il
problema dei sentimenti è un problema di relazione: sono in
gioco i miei rapporti con un’altra persona, con un gruppo. E
allora bisogna porre dei paletti: prima di far circolare
contenuti che riguardano altri devo preoccuparmi che ci
siano il consenso o la consapevolezza di quelle persone».
Un altro versante riguarda la dignità
del morire. In Italia non esiste ancora una legge sul
testamento biologico.
«E per fortuna, oserei dire. La legge prospettata era molto
restrittiva, rispetto a una coraggiosa sentenza della Corte
Costituzionale che nel 2008 riconobbe il diritto del governo
del corpo esercitato in piena autonomia. Il legislatore ha
il vizio o la propensione a impadronirsi della vita delle
persone. In Italia abbiamo diffidenza verso le decisioni
autonome: la libertà non è vista come bene da salvaguardare
ma rischio da tenere sotto controllo».
Dalle tecnoscienze alla
bioetica, dalla privacy ai diritti d’amore, dignità è la
parola chiave del suo impegno.
«Sì, ma l’ho
scoperto piano piano: la dignità è un modo antropologico di
vivere. Se io riconosco a una persona dignità, non posso
comportarmi come se questa consapevolezza non l’avessi mai
acquisita».
(da laRepubblica 23 settembre
2016, p.55)