Scuole Paritetiche? Non
in nome della libertà
Torna il tema degli
investimenti privati nella scuola pubblica. E resta
l’anomalia dell’ora di religione cattolica, per niente
facoltativa
di Stefania Friggeri
All’interno di un quadro
politico confuso che genera disaffezione e pessimismo
emerge in primo piano il tema della scuola e i media
riportano le proteste degli insegnanti, precari e non,
che denunciano gli effetti di una politica di risparmi e
di tagli: disoccupazione, classi sovraffollate e prive
di insegnanti di sostegno. Eppure anche nella scuola vi
sono situazioni di intollerabile privilegio: le scuole
private, definite “paritarie”, nella stragrande
maggioranza cattoliche. Come è noto la religione
cattolica, eletta a “religione di Stato”, venne posta “a
coronamento dell’istruzione pubblica” nel 1929, grazie
al Concordato col Vaticano. Fu una mossa di grande
impatto mediatico che permise a Mussolini di superare un
difficile momento politico. Nonostante alcune voci
autorevoli, anche di cattolici, chiedessero l’abolizione
dell’ora di religione, un nuovo Concordato venne
stipulato nel 1984 da Craxi che, con sottigliezza
politica, abolì l’anacronistica espressione che definiva
quella cattolica “religione di Stato”, ma
contemporaneamente nel nuovo Concordato accettò che
l’insegnamento della religione cattolica (IRC) venisse
inserito in tutti gli ordini e gradi di scuola.
“Obbligatorio nell’orario, facoltativo nella scelta”,
l’IRC costringeva gli studenti “non avvalentesi” a
rimanere a scuola: ma poiché era complicato organizzare
delle specifiche attività a loro favore, avveniva spesso
che gli studenti fossero mandati fuori classe per
dedicarsi allo studio individuale, soli o con un
insegnate disponibile. Non poco il disagio per gli
alunni e le complicazione organizzative anche perché la
CEI non voleva che l’insegnamento venisse previsto alla
prima o all’ultima ora, nel timore di vedere svuotare le
classi. Anche se questo non avrebbe privato l’insegnante
di religione dei suoi privilegi: gli basta anche un solo
alunno per fare una classe e se proprio non ha nemmeno
un alunno, viene trasferito sulla cattedra di un
collega. Il quale dunque può perdere il posto, a
differenza dell’insegnante di religione che sale in
cattedra non perché ha superato un concorso, ma perché è
stato “nominato” dal vescovo, cui spetta anche il
diritto di allontanarlo dalla cattedra di religione se
giudica il suo comportamento non conforme ai doveri di
un bravo cristiano (ad esempio se divorzia). Quindi
anche se l’IRC è una materia facoltativa nel tempo si è
provveduto a renderla di fatto una materia curriculare.
Ad esempio nel 2001 la Moratti ha inserito l’ora di
religione nel monte ore delle discipline che
obbligatoriamente lo studente deve frequentare se vuole
essere ammesso all’anno successivo. Ma nel 2003 la
ministra ha superato se stessa: ha bandito un concorso
riservato per mettere in ruolo circa il 70% degli
insegnanti di IRC. In ogni caso chi insegna l’IRC è già
privilegiato di suo perché gode di regalie
ingiustificabili sul piano dell’eguaglianza dei diritti:
scatti retributivi e un trattamento assimilabile a
quello dei colleghi di ruolo (permessi, giorni di
malattia, avvio del servizio al primo settembre e fine
al 31 agosto successivo, con le ferie pagate,un
beneficio di cui non godono i precari il cui contratto
scade, per la maggior parte, il 30 giugno). Altra tappa
della favorevole “dereguletion” è stata quella dei
crediti. Essendo una materia facoltativa scelta in
libertà di coscienza, l’IRC venne esclusa (Decreto
Ministeriale 1998) dai crediti che dal terzo anno delle
superiori lo studente può accumulare e poi presentare
all’esame di Stato, una specie di “dote” che mette
insieme sia la media dei voti ottenuti nel triennio, sia
la valutazione da parte degli insegnanti delle attività
extrascolastiche. Ebbene l’ordinanza ministeriale del
marzo 2007 ha stabilito che i docenti di religione
“partecipano a pieno titolo alle deliberazioni del
consiglio di classe concernenti l’attribuzione del
credito scolastico agli alunni che si avvalgono di tale
insegnamento”. Con straordinaria ipocrisia lo stesso
diritto viene attribuito anche agli insegnanti degli
alunni “non avvalentesi”, che però non ci sono in tutti
gli istituti, così che l’ordinanza, difficilmente
applicabile, ha generato una grande confusione dentro la
scuola. E fuori dalla scuola, nei tribunali, dove un
aspro e infinito contenzioso è stato attivato dalle
forze che intendevano preservare la laicità della scuola
pubblica, o quello che ne rimaneva. La “via giudiziaria”
alla laicità, promossa dai ricorsi di privati e di varie
associazioni - come la Federazione delle Chiese
Evangeliche, la Tavola Valdese e l’Unione delle Comunità
ebraiche - contestava sia la disparità di trattamento
fra compagni sia il ruolo di privilegio che viene
concesso all’insegnante (che, pur essendo docente di una
materia facoltativa, in realtà fa un altro passo avanti
verso l’equiparazione con chi è docente di una materia
curriculare). La lunga e dispendiosa peregrinazione
degli avvocati è approdata finalmente nel 2010 alla
pronuncia definitiva del Consiglio di Stato che,
ribaltando una sentenza con cui il TAR del Lazio aveva
ribaltato una precedente ordinanza (sic!) concedeva agli
insegnanti dell’IRC di concorrere col loro voto alla
determinazione del credito. Nessuna meraviglia: oggi in
Italia, grazie ad una formula interpretativa qui e ad
una revisione ministeriale là, la Chiesa cattolica ha
ormai strappato una condizione di totale omogeneità
rispetto alla scuola pubblica con la complicità di tutti
i governi. Perché qualsiasi governo sa che la scuola
rappresenta per la Chiesa cattolica un punto di forza
fondamentale, irrinunciabile. Approfittando
dell’incertezza del diritto in cui sta annegando il
senso civico del paese, anche l’attuale ministra,
Stefania Giannini, al Meeting di Comunione e Liberazione
ha anticipato le linee della sua riforma della scuola
che, tra l’altro, prevede ulteriori forme di promozione
della scuola privata, a partire dal finanziamento. Ma
era una scuola privata “paritaria” quella di Trento dove
la madre superiora ha proposto ad una insegnante, di cui
sospettava la tendenza lesbica, un percorso
riabilitativo. La riforma Berlinguer del 2000, quando ai
tempi dell’Ulivo i Popolari premevano per restituire
alle scuole confessionali un ruolo importante, ha
riconosciuto sì la “parità” scolastica alle scuole
private, ma impegnandole ad adottare una serie precisa e
dettagliata di condizioni che avrebbero reso la scuola
privata e quella pubblica “equipollenti” (?). E
l’impegno va rispettato perché una scuola privata non
“paritaria”, essendo libera di perseguire un proprio
progetto culturale, non è obbligata a garantire un
insegnamento pluralista come deve fare la scuola
statale. Ma, come si è visto dai pochi esempi riportati,
col passare del tempo lo spirito della legge è stato
annebbiato, stravolto da interpretazioni capziose ed
interessate; e le successive manipolazioni ministeriali
hanno trasformato la “parità” nella libertà di fare a
proprio piacimento, senza rinunciare alle sovvenzioni
statali, come dimostra il caso di Trento. Oggi le scuole
private rappresentano un modesto 5%, destinato a
diminuire per la difficoltà delle famiglie di pagare la
retta. E forse è anche per questo che la ministra
Giannini tenta di promuovere un sistema pubblico-privato,
insistendo sul merito delle scuole paritarie che, a suo
dire, permettono allo Stato di risparmiare: sono calcoli
interessati e comunque lo studente paritetico costa meno
allo Stato perché costa di più alle famiglie, a quelle
che se lo possono permettere. Ma oggi, nel nome della
privatizzazione, quella scuola che negli auspici di
Calamandrei ha la funzione strategica di formare il
cittadino facendolo crescere in un ambiente
multiculturale, alieno da un approccio ideologico o
confessionale (come chiede la Costituzione), rischia
addirittura di essere stravolta da un progetto
antidemocratico ed alienante che tutto trasforma in
merce. E al Meeting di Comunione e Liberazione la
ministra Giannini ha lanciato la proposta dell’
“investimento delle imprese private nella scuola
pubblica”.
Noi donne,
8 Dicembre 2014
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