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Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno" |
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La "Buona scuola" di Renzi,
ovvero mercatismo e privatizzazione
di
Alvaro Belardinelli
Nei giorni in cui scriviamo, il nostro giovane ed instancabile Presidente del Consiglio si sforza di far capire agli elettori la propria vera identità. Infatti, pur continuando a recitare la parte del simpatico e giovanilistico politico anticonformista in informali maniche di camicia bianca, Renzi sventaglia raffiche di affermazioni reazionarie che farebbero impallidire persino un padrone delle ferriere di cent’anni fa. Vediamo qualche esempio. Per convincerci della necessità di abolire l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, il premier sibila dai teleschermi che
Come se la soluzione fosse invece distruggere ogni traccia di stato sociale e di parità di diritti tra lavoratori e classe padronale; e come se la crisi fosse dovuta alle leggi che tutelano i cittadini più deboli dai soprusi dei più ricchi. I lavoratori sono sempre più poveri? È assolutamente necessario aumentarne le entrate al fine di rilanciare la domanda interna e permettere all’economia di ripartire? «Potremmo mettere il Tfr mensilmente in busta paga», suggerisce il Capo dell’esecutivo. Evidentemente il suo obiettivo non è l’aumento dei salari, ma quello (machiavellico e demagogico) di illudere i lavoratori dipendenti con un aumento stipendiale finto, materializzato scippando dalle loro tasche il trattamento di fine rapporto. Calcoli elettoralistici D’altro canto, per incassare i voti degli insegnanti alle elezioni europee, il Nostro è stato capace di farli sognare, proferendo frasi da illuminato e pragmatico statista. Come questa:
Giustissimo. Nessun Docente degno di questo nome potrebbe non dirsi d’accordo. E difatti i voti dei Docenti, puntuali, sono arrivati. Peccato che, a smentire queste belle e condivisibili parole, si ergano monolitiche le centotrentasei pagine del pamphlet propagandistico La buona scuola, pubblicato in internet ai primi di settembre, ad elezioni europee già archiviate. Se questa autentica nuova sciagura andasse in porto, il Docente del futuro sarebbe definitivamente trasformato in un travet frustrato, impoverito, oberato dalla burocrazia, sfiancato dalla necessità di piacere al Dirigente e di collezionare “crediti” per ricevere, ogni tre anni, l’agognato “aumento” destinato a premiare i migliori: ossia la lauta somma di “circa” euro sessanta (ossia il venticinque per cento in meno degli ottanta euro da cui tanti elettori italiani si son lasciati abbindolare). Capovolgere la realtà, chiamare bene il male e male il bene, sfumare le differenze tra posizioni opposte ed inconciliabili: questa è stata sempre l’abilità principale dei politicanti vincenti, quelli più abili nell’asservire l’etica alla politica, nel sottomettere l’interesse comune al vantaggio personale, e nel giustificare i propri spregevoli mezzucci con fini nobilissimi. Non sorprende dunque che anche sulla scuola la “squadra” del Presidente del Consiglio abbia dato il meglio di sé nel giocare con parole e concetti al fine di sedurre gli ingenui e i distratti. Giochetti verbali Leggiamo a pagina 106 del libello renziano:
Bisogna riconoscerlo: Lorsignori sono abilissimi nell’arte di infinocchiare i creduloni. Ci si perdoni la veemenza delle nostre parole, resa necessaria dal violento tentativo governativo di stravolgere la realtà. Difatti l’espressione “fondata sul lavoro” cita l’articolo 1 della Costituzione («L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro»), deformandone però completamente il significato e il senso. Ad essere “fondata sul lavoro” non è, secondo i Padri costituenti, la Scuola, ma la forma costituzionale dello Stato italiano; il quale, essendo una “Repubblica” (cosa pubblica, del popolo) e per di più democratica (in cui il potere sovrano spetta al popolo, come ribadito dal secondo comma dell’articolo 1), riconosce come proprio valore fondante il lavoro ed i diritti che ne derivano. La Costituzione, insomma, identifica il lavoro con il mezzo di cui l’individuo si serve per realizzare la propria personalità, e come strumento mediante il quale il cittadino contribuisce allo sviluppo economico dello Stato. Una concezione che nulla ha a che fare con l’idea neoliberistica del lavoro, che fa di quest’ultimo una merce come tante altre. Per essere appetibile dal magnate finanziatore, la merce-lavoro dev’essere a buon mercato, flessibile, duttile, priva di autocoscienza, non conflittuale, capace di eseguire scrupolosamente compiti minimali e ripetitivi (fintantoché questi siano utili al magnate stesso), nonché pronta al licenziamento quando al magnate non serve più. Plastica immagine di tutto ciò sono i test dell’Invalsi, che addestrano gli allievi a scegliere risposte preordinate, senza possibilità di metterle in discussione. I mercanti nel tempio del sapere In questa rappresentazione mercantilistica del lavoro (e di chi lavora) non c’è spazio alcuno per il cittadino previsto dalla nostra Costituzione: un cittadino capace (attraverso il sapere, la cultura, il pensiero critico) di realizzare ed esprimere se stesso e la propria umanità lavorando; un cittadino “a tutto tondo”, libero anche grazie alla preparazione culturale ricevuta in una Scuola pluralistica, democratica, laica, non confessionale; un cittadino capace di non lasciarsi trattare come schiavo o come merce (che è poi la stessa cosa). Nei cronoprogrammi neoliberistici dei nostri governanti non c’è più traccia della necessità di liberare il cittadino dagli
Non c’è traccia della Scuola che trasmette sapere al cittadino in modo disinteressato e gratuito, al fine di «rimuovere gli ostacoli» culturali che impediscono l’eguaglianza di opportunità. Non c’è traccia di una Scuola che mette le migliori intelligenze (di tutti i ceti sociali) in condizione di emergere e di cooperare alla prosperità comune, producendo reale benessere per tutti. Non c’è traccia perché non si vuole che vi sia traccia. Si progetta a tavolino un mondo dove i diritti vengano considerati zavorra, in cui la legge e il diritto siano visti come “lacci e lacciuoli”, e le cui uniche divinità siano il Mercato e il Profitto (privato). “Feudalcapitalismo” all’italiana Un mondo del genere coniuga il capitalismo con il feudalesimo, cristallizzando i rapporti sociali per sempre, ed impedendo a priori qualsiasi evoluzione. In un mondo simile il ceto dominante, quello degli imprenditori più potenti e spregiudicati (alcuni dei quali potrebbero forse meglio definirsi prenditori) e degli straricchi per nascita (altro che merito!) ha interessi opposti rispetto ad uno Stato democratico, ed intende che questi interessi (e solo questi) siano rispettati, informando di sé tutte le istituzioni dello Stato medesimo. La Scuola, istituzione dello Stato democratico fondata sul sapere come fondamento del pensiero critico e dell’intelligenza (e dunque come volano d’indipendenza e di elevazione sociale), dovrà diventare, secondo il ceto egemone, luogo adibito all’addestramento di “menti d’opera emancipate dal pensiero critico”. Questo significa, nella mente di Lorsignori, l’espressione “Scuola fondata sul lavoro”. Non lo diciamo noi: lo ha detto il Cavaliere del Lavoro Giancarlo Lombardi, industriale che nel marzo 1993, ad un convegno veneziano di Confindustria, indicò come obiettivo della formazione del futuro la creazione, appunto, di “menti d’opera emancipate dal sapere critico” (1). Per inciso, ci è gradita l’occasione per ricordare che Giancarlo Lombardi fu poi nominato Ministro della Pubblica Istruzione del Governo Dini, in carica dal 17 gennaio 1995 al 17 maggio 1996 (un anno e quattro mesi). Quello fu il primo esperimento di governo tecnico della Repubblica, completamente formato da funzionari ed “esperti” non eletti dai cittadini (come del resto lo stesso ex sindaco Renzi). Proprio nel 1995 (non a caso) fu siglato quel Contratto Collettivo Nazionale della Scuola che tolse ai Docenti gli scatti biennali automatici per trasformarli in sessennali, subordinandoli alla frequenza di “corsi d’aggiornamento” organizzati spesso dalle “maggiormente rappresentative” (e compiacenti) Organizzazioni Sindacali. È evidente la continuità tra quel Governo di allora, tutti i Governi che gli sono succeduti (di qualsiasi colore) e i governanti di oggi (che con il piano Renzi intendono eliminare del tutto gli scatti salariali automatici). Propaganda fondata sul nulla Dunque questo si vuole: una Scuola non più fondata sul sapere, ma “sul lavoro”. La Scuola dovrebbe trascurare sempre più la cultura “inutile”; ossia tutto quel sapere che non è immediatamente connesso alla produzione e al mercato (2). Il pretesto potrebbe sembrare a prima vista condivisibile: c’è una crisi di sistema che genera disoccupazione; per tornare competitivi sul mercato, i giovani devono prepararsi alla nuove tecnologie, tralasciando quanto non sia in linea con la “modernità”; occorre quindi facilitare l’alternanza scuola-lavoro, in modo che gli studenti frequentino le industrie.
Ci sarebbe insomma un «disallineamento tra la domanda di competenze che il mondo esterno chiede alla scuola di sviluppare, e ciò che la nostra scuola effettivamente offre», perché avremmo «perso nel tempo la nostra capacità di stare al passo col mondo». La solita musica: a scuola si insegna troppo umanesimo e troppo poco di pratico. «In Italia il numero di laureati in materie scientifiche è al disotto della media europea», strilla l’opuscolo a pagina 110. Il che giustificherebbe il progetto di diminuire il peso delle materie umanistiche nella Scuola (come Lorsignori stanno facendo da anni). Stranamente, però, quasi tutti i laureati italiani in materie scientifiche sono disoccupati o precari in Italia, e sono costretti a emigrare all’estero (dove trovano lavoro immediatamente). Allora a che servirebbe aumentarne il numero? Evidentemente è il sistema produttivo a non funzionare, non la Scuola. Ed è poi uno svantaggio avere tanti laureati in materie umanistiche? O non è semmai una freccia all’arco dell’Italia rispetto al resto del mondo? L’uragano Gelmini: dove fece il deserto, lo chiamò “riforma” Nessun accenno, qui come ovunque nel libello, ai guasti inflitti al sistema scolastico italiano da quell’estinzione di massa di laboratori ed ore d’insegnamento (anche di materie tecnico-pratiche) che è stata metodicamente perseguita dalla rovinosa “riforma” Gelmini. Una “riforma”, la cui abolizione era stata più volte promessa dal Partito Democratico nelle varie campagne elettorali, ma mai realizzata una volta intascati i voti. Eppure tutti sanno che i provvedimenti della perspicace Ministra (notoriamente vicina al Nobel per l’invenzione del tunnel dei neutrini) non sono stati una riforma, ma una demolizione controllata. Lo sanno gli insegnanti, lo sanno gli studenti, lo sanno i genitori. Cattedre frantumate, orari sconvolti, tagli di ore in materie fondamentali: come l’italiano al Ginnasio, che ha perso il venti per cento delle ore; come la geografia, semplicemente dimezzata nel monte orario ginnasiale ed accorpata alla storia, nell’indifferenza di tutto il Paese e (quel che più scandalizza) delle case editrici, pronte a sanare la ferita inventando di sana pianta testi scolastici di “geostoria”. Già: la “geostoria”. Un termine che non esiste nemmeno sul dizionario Treccani, né ha corrispettivi in nessun’altra parte del mondo, né la benché minima ombra di dignità epistemologica (che cos’è? la storia della crosta terrestre? la storia della geologia? la geografia in senso diacronico? la storia geopolitica del pianeta? il nome di un programma televisivo?). Un neologismo inventato di sana pianta per mascherare il vuoto pneumatico di contenuti epistemologici, didattici ed educativi sotteso alla “riforma” gelminian-berlusconiana, mai eliminata nemmeno dopo le dimissioni dell’ultimo governo Berlusconi (ossia dal 2011). L’uragano Gelmini ha iniettato nelle vene della Scuola il virus del caos e dell’autodistruzione. In nome del risparmio. Possono parere eccessive queste parole. Ne siamo consapevoli. Eppure la realtà è questa. C’è assoluto bisogno che qualcuno ne denunci la gravità. Anche gridando, se necessario. Al Ginnasio molto spesso gli studenti di quattordici anni si ritrovano la cattedra di lettere assegnata a quattro Docenti diversi: uno per l’italiano, uno per il latino, uno per il greco, uno per la cacofonica e paradossale “geostoria”. Intanto le cattedre di lettere del Ginnasio vengono affidate ai Docenti non abilitati per il greco, mentre quelli che sanno il greco sono relegati su quest’unica materia o vanno ad insegnare negli Istituti Tecnici o alle Scuole Medie. Così i detrattori del Liceo Classico e delle materie umanistiche hanno buon gioco nel dire che il Liceo Classico non è più adeguato alla nostra moderna realtà, dal momento che gli studenti non ne escono preparati come prima. Come dire che Pompei va rasa al suolo perché ormai sta crollando tutta (senza rammentare le responsabilità di chi l’ha portata ad un simile degrado). La stampa asservita È forse possibile capire dai giornali che la situazione è questa? No di certo, perché ormai la grande stampa va per inerzia sulla china degli slogan governativi. Per questo i Docenti sembrano ormai rassegnati al peggio, benché in massima parte concordi nel valutare negativamente la politica scolastica di tutti i Governi degli ultimi ventuno anni. Eppure c’è sempre la speranza che sappiano rialzare la testa, come varie volte hanno saputo fare in passato e come i nostri simpatici, incompetenti ed insinceri politicanti in fondo temono. Le reali finalità Qualcuno “lassù” ha deciso, da anni e anni, di anemizzare la Scuola Statale, di sabotarla e di negarle ogni manutenzione, spingendola verso il crollo. Il fascicolo La buona scuola è un capolavoro di doppiogiochismo ed ipocrisia, che cerca di barattare centocinquantamila assunzioni con lo stravolgimento della Scuola istituita dalla Costituzione; pur sapendo bene che il Governo è in realtà obbligato ad assumere i centocinquantamila, perché la Corte di giustizia dell’Unione europea minaccia all’Italia una multa di quattro miliardi se il Governo non stabilizza i precari. Il sistema di governance della Scuola prefigurato a pagina 71 del pamphlet renziano è, sic et simpliciter, quello proposto dal disegno di legge Aprea-Ghizzoni, già bocciato dalle mobilitazioni del 2008 e del 2012, cui parteciparono insegnanti, studenti, genitori, semplici cittadini preoccupati per il futuro della Scuola (e quindi del Paese). Se un simile stratagemma passasse, avverrebbe una privatizzazione de facto delle scuole statali, con i privati finanziatori che entrerebbero nel Consiglio d’Istituto (trasformato in Consiglio d’Amministrazione) di ogni scuola per determinarne il percorso formativo. Il Collegio dei Docenti, totalmente esautorato, verrebbe trasformato in un “Consiglio” puramente consultivo ed addetto unicamente alla programmazione didattica. La Scuola nazionale si ritroverebbe frantumata e consegnata ai poteri forti del territorio (che in molte plaghe del Paese sono le mafie) o agli enti formativi confessionali. D’altronde, a pagina 66 del libello si ribadisce l’urgenza di
E ciò mentre si continua a defraudare la Scuola Statale di risorse vitali. Un’altra farsa italica Basterebbe questo per capire le vere intenzioni che si celano dietro il progetto di Scuola “fondata sul lavoro”: non un’alternanza tra scuola e lavoro vantaggiosa, seria e controllata come quella che giustamente esiste in Germania, dove gli interessi dell’impresa vengono tutelati al pari dei diritti degli studenti. Qui da noi la struttura sociale è ben diversa; diversi sono i valori comuni di riferimento; tutt’altre sono le menti che governano il Paese (“la borghesia più ignorante d’Europa” secondo Pasolini, la quale “non considera esistente la manodopera se non quando serve alla produzione” (3)). Si rischia una parodia “all’italiana” del “sistema duale tedesco”: una caricatura consistente nel semplice “noleggio” gratuito degli studenti italiani, che diventerebbero operai non salariati “prestati” alle aziende. D’altronde questa parte dell’opuscolo renziano è parecchio fumosa ed indeterminata, molto più dei capitoli in cui si parla della distruzione di qualsiasi automatismo salariale, della gerarchizzazione dei Docenti mediante il sistema dei mentor, della governance modello Aprea, dello strapotere dittatoriale regalato ai Dirigenti Scolastici: argomenti su cui le idee renziane sono molto più chiare e precise. Tuttavia lo straparlare di “scuola fondata sul lavoro”, in un’epoca in cui tutti i genitori sono terrorizzati dalla disoccupazione prossima ventura dei propri figli, torna utile: non certo al Paese, ma a chi ne cerca il consenso e la fiducia cieca su un progetto che nulla ha a che fare con gli interessi comuni. Non resta che sperare nella capacità degli Italiani di vedere la realtà dietro il fumo della propaganda. Spes ultima dea. Note 1. Atti del Convegno Confindustria di Venezia del 19-20 marzo 1993, La formazione del futuro. Cultura dello sviluppo e politica delle risorse umane, SIPI, Roma 1993. Vedi anche F. FABBRI, A cosa serve l’i-cultura? Ovvero, a cosa serve la cultura per lavorare in un call-center?, in AA.VV., A cosa serve la cultura. Quattordici contributi, Il Saggiatore, 2008, pp. 17ss. 2. Cfr. sull’argomento il pregevole saggio di N. ORDINE, L’utilità dell’inutile, Milano 2013. 3. Parole pronunciate da Orson Welles nell’episodio La ricotta, regia di Pier Paolo Pasolini, tratto dal film Rogopag (1963).
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