Occorre più sinistra per
uscire dalla crisi
di Giovanni
Barbera
Si è chiuso un altro annus
horribilis per il nostro Paese. Il 2013 non è stato un anno
molto differente da quelli che lo hanno preceduto, a dispetto
delle dichiarazioni ottimiste, riguardanti la fine della crisi
economica, rilasciate in questi ultimi mesi, a più riprese, sia
dai rappresentanti del Governo Letta che da altri diversi
esponenti del mondo economico e politico.
E’ evidente che la realtà è molto più complessa di quanto vogliono
farci credere coloro che hanno tutto l’interesse a a far digerire
alle classi popolari quelle controriforme istituzionali e sociali
che stanno “svuotando” la nostra democrazia e finendo di demolire
quello che è rimasto del modello di sviluppo sociale costruito nel
dopoguerra, grazie alle lotte dei lavoratori.
Purtroppo, l’idea che la ripresa economica sia alle porte e che,
quindi, il periodo più difficile sia già alle nostre spalle, è
tutt’altro che un fatto reale.
E’ vero che in questi ultimi mesi sono stati registrati segnali
economici confortanti, sicuramente in controtendenza rispetto alle
dinamiche economiche degli ultimi anni: la riduzione del Pil (la
ricchezza prodotta) si è fermata, la discesa dei consumi ha
subito un inequivocabile rallentamento, mentre la produzione
industriale ha registrato nell’ultimo mese un lieve miglioramento,
anche se di pochi punti decimali. Ma tutto ciò non significa di per
sé una inversione di tendenza, con una ripresa della crescita
economica e, di conseguenza, dell’occupazione. Anzi il pericolo più
probabile a cui stiamo andando incontro, sia nel nostro Paese che in
tutta Europea, è proprio quello della spirale deflattiva, ossia di
un calo costante e generalizzato dei prezzi, causato dalla debolezza
della domanda di beni e servizi, che rischia di intrappolare il
sistema economico europeo in una lunga fase di stagnazione
economica, se non addirittura di nuova recessione. Il Giappone ci
ha messo dieci anni per uscire da una situazione simile.
Da questo punto di vista,
appare ben poco utile anche il tentativo operato dalla Banca
Centrale Europea di scongiurare tale pericolo, tramite la
diminuzione dei tassi di interesse. Una misura di politica monetaria
che rischia di essere ininfluente sul ciclo economico a causa di
quel fenomeno che nella teoria macroeconomica è conosciuto con il
nome di “trappola della liquidità”.
E’ vero che la diminuzione dei tassi di interesse
incentivano le imprese a indebitarsi, e quindi a investire, e
disincentivano le famiglie a risparmiare, aumentando i loro consumi.
Ma il vero motore dei consumi è la fiducia verso il futuro. Se
predomina l’incertezza e la paura per il futuro si entra in un
circolo vizioso dove l’abbondante liquidità viene accumulata invece
di essere rimessa in circolazione, con effetti negativi a catena
sull’economia. Insomma, non sempre è sufficiente aumentare la
liquidità nel sistema economico per stimolare la ripresa degli
investimenti produttivi e dei consumi. L’unica vera soluzione per
rilanciare l’economia ed uscire definitivamente dalla crisi sarebbe
quella di agire sulla domanda di beni e servizi, tramite la crescita
della spesa pubblica e una più equa redistribuzione del reddito,
come diversi economisti vanno sostenendo da tempo, contro la vulgata neoliberista.
Ma evidentemente non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire,
visto che l’ortodossia neoliberista continua ad imperversare anche
quando viene clamorosamente smentita dalla realtà dei fatti.
Va rilevato che uno scenario economico come quello
che si prospetta allontanerebbe per chissà quanto tempo la
possibilità di migliorare le condizioni materiali di vita delle
fasce sociali più deboli. Tale situazione sarebbe insostenibile per
quelle famiglie hanno già pagato in questi anni un prezzo molto
salato per la crisi economica e per le politiche di austerity.I
dati che periodicamente vengono pubblicati sulle condizioni di vita
nel Paese sono più che esplicativi. Secondo una recente ricerca
dell’Istat, il 29,9% delle persone residenti in Italia sono a
rischio di povertà o esclusione sociale, con punte che arrivano nel
Mezzogiorno fino al 48% della popolazione. Un dato questo che
supera di 5,1 punti percentuali la media europea (24,8%) e che
registra un incremento dell’1,7% rispetto al 2011. Ma quello
che sconcerta sono anche gli altri risultati che emergono dalla
ricerca sopra citata. Ad esempio, si evince che, dal 2011 al 2012,
le famiglie che non possono permettersi una settimana di
ferie lontano da casa sono aumentate dal 46,7% al 50,8%; quelle che
non hanno potuto riscaldare adeguatamente la propria abitazione sono
cresciute dal 18,0% al 21,2%; quelle che non riescono più a
sostenere spese impreviste di 800 euro, sono passate dal 38,6% al
42,5%, quelle che non possono permettersi neanche un pasto
proteico adeguato ogni due giorni, sono invece aumentate dal 12,4%
al 16,8%.
Insomma, un quadro sconfortante e allarmante delle condizioni
sociali in cui versa una fetta rilevante della nostra popolazione,
che evidenzia – se ce ne fosse ancora bisogno – la necessità e
l’urgenza di costruire un argine a questa deriva che non è solo
economica e sociale, ma anche culturale e morale.
Una deriva che evidenzia il fallimento delle nostre classi
dirigenti che hanno portato il Paese sull’orlo del baratro.
Classi dirigenti che, nonostante ciò, continuano ad utilizzare la
crisi come un grimaldello per fare tabula
rasa di quello che
rimane del sistema di Welfare nel nostro Paese. Non è un caso che in
questi ultimi vent’anni siano stati progressivamente realizzati
gran parte degli obiettivi contenuti nel famigerato “Piano di
Rinascita” della P2 di Licio Gelli. A dimostrazione del fatto che
quanto sta succedendo nel Paese risponde a un disegno politico ben
preciso, espressione di quel fenomeno che Gramsci definì come
“sovversivismo delle classi dirigenti”.
L’assenza di una forte
presenza organizzata della Sinistra di alternativa nel Paese,
soprattutto in questi ultimi anni caratterizzati dalla crisi
economica e dalle scellerate politiche di austerity,
ha pesato non poco nel rendere possibile la realizzazione di quel
disegno politico che abbiamo citato sopra. Liberismo e involuzione
democratica sono, infatti, due facce della stessa medaglia, due
processi che si autoalimentano a vicenda, uno è funzionale
all’altro.
C’è la necessità e l’urgenza di rilanciare la costruzione di un
ampio schieramento politico e sociale nel Paese, così come sta
avvenendo con successo in molti altri paesi dell’Unione Europea. Uno
schieramento che sia in grado di contrastare quei processi di
involuzione autoritaria e politiche neoliberiste portate avanti
dalle classi dirigenti. Ma per realizzare tale obiettivo non
bastano le declamazioni o gli slogan, la difesa di piccole nicchie o
la prosopopea di chi si sente depositario della verità
rivoluzionaria.
Bisogna mettere da parte quelle vocazioni minoritarie e
all’autosufficienza, quegli ideologismi che hanno ridotto negli
ultimi anni la Sinistra di alternativa a ben poca cosa e che oggi
sono gli ostacoli principali per rilanciare un processo di
riaggregazione, in forma plurale, di tutte quelle realtà sociali e
politiche che aspirano a cambiare radicalmente il modello di
sviluppo sociale. Una riaggregazione dal basso, sulla base di
un progetto comune e credibile che non parli solo alle cosiddette
“avanguardie”, ma a tutti quei soggetti sociali che subiscono la
crisi e le politiche neoliberiste, a partire proprio proprio dal
mondo del lavoro, da tempo senza rappresentanza politica.
Parliamo di quella sinistra che aspira a una trasformazione
radicale del modello di sviluppo sociale, ma che rifiuta di
auto-confinarsi in un ruolo marginale e di testimonianza nel Paese,
soprattutto in questa delicata fase storica.
Non è vero, infatti, che in
Italia non esisterebbe uno spazio politico a sinistra del Pd. La
recente affermazione di Renzi alle primarie del Pd – determinando
un’ulteriore spostamento del baricentro di tale partito a destra –
ha, di fatto, anche allargato tale spazio. Quello che manca è un
progetto credibile, senza fughe dalla realtà, che sappia legare la
prospettiva di una trasformazione radicale della società con la
capacità di riuscire a conquistare risultati utili e concreti, anche
se parziali, nell’immediato per i nostri soggetti sociali di
riferimento. Solo in questa maniera sarà possibile entrare di nuovo
in sintonia con quello che una volta avremmo definito il “popolo
della sinistra”, oggi purtroppo disperso in mille rivoli dal punto
di vista elettorale, dopo le sconfitte e gli errori del passato.
Da questo punto di vista, nonostante le difficoltà oggettive e
soggettive di cui siamo assolutamente consapevoli, auspichiamo che
si possa finalmente compiere un decisivo balzo in avanti nella
costruzione di un ampio schieramento politico e sociale necessario,
in questa fase, per arginare l’offensiva delle classi dominanti e
la deriva economica, sociale e morale del nostro Paese, prima che
sia troppo tardi. Non può che essere questo il migliore auspicio che
ci sentiamo di fare con l’inizio del nuovo anno. D’altronde, se non
ora, quando?
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