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Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno" |
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Il Grande deserto dei diritti di Stefano Rodotà *
Si può avere una agenda politica che ricacci sullo sfondo, o ignori del tutto, i diritti fondamentali? Dare una risposta a questa domanda richiede memoria del passato e considerazione dei programmi per il futuro. Ma bilanci e previsioni, in questo momento, mostrano un’Italia che ha perduto il filo dei diritti e, qui come altrove, è caduta prigioniera di una profonda regressione culturale e politica. Le conferme di una valutazione così pessimistica possono essere cercate nel disastro della cosiddetta Seconda Repubblica e nelle ambiguità dell’Agenda per eccellenza, quella che porta il nome di Mario Monti. Solo uno sguardo realistico può consentire una riflessione che prepari una nuova stagione dei diritti. Vent’anni di Seconda Repubblica assomigliano a un vero deserto dei diritti (eccezion fatta per la legge sulla privacy, peraltro pesantemente maltrattata negli ultimi anni, e alla recentissima legge sui diritti dei figli nati fuori del matrimonio). Abbiamo assistito ad una serie di attentati alle libertà, testimoniati da leggi sciagurate come quelle sulla procreazione assistita, sull’immigrazione, sul proibizionismo in materia di droghe, e dal rifiuto di innovazioni modeste in materia di diritto di famiglia, di contrasto all’omofobia. La tutela dei diritti si è spostata fuori del campo della politica, ha trovato i suoi protagonisti nelle corti italiane e internazionali, che hanno smantellato le parti più odiose di quelle leggi grazie al riferimento alla Costituzione, che ha così confermato la sua vitalità, e a norme europee di cui troppo spesso si sottovaluta l’importanza. La considerazione dei diritti permette di andare più a fondo nella valutazione comparata tra Seconda e Prima Repubblica, oggi rappresentata come luogo di totale inefficienza. Alcuni dati. Nel 1970 vengono approvate le leggi sull’ordinamento regionale, sul referendum, il divorzio, lo statuto dei lavoratori, sulla carcerazione preventiva. In un solo anno si realizza così una profonda innovazione istituzionale, sociale, culturale. E negli anni successivi verranno le leggi sul diritto del difensore di assistere all’interrogatorio dell’imputato e sulla concessione della libertà provvisoria, sulla delega per il nuovo codice di procedura penale, sull’ordinamento penitenziario; sul nuovo processo del lavoro, sui diritti delle lavoratrici madri, sulla parità tra donne e uomini nei luoghi di lavoro; sulla segretezza e la libertà delle comunicazioni; sulla riforma del diritto di famiglia e la fissazione a 18 anni della maggiore età; sulla disciplina dei suoli; sulla chiusura dei manicomi, l’interruzione della gravidanza, l’istituzione del servizio sanitario nazionale. La rivoluzione dei diritti attraversa tutti gli anni ’70, e ci consegna un’Italia più civile. Non fu un miracolo, e tutto questo avvenne in un tempo in cui il percorso parlamentare delle leggi era ancor più accidentato di oggi. Ma la politica era forte e consapevole, attenta alla società e alla cultura, e dunque capace di non levare steccati, di sfuggire ai fondamentalismi. Esattamente l’opposto di quel che è avvenuto nell’ultimo ventennio, dove un bipolarismo sciagurato ha trasformato l’avversario in nemico, ha negato il negoziato come sale della democrazia, si è arresa ai fondamentalismi. È stata così costruita un’Italia profondamente incivile, razzista, omofoba, preda dell’illegalità, ostile all’altro, a qualsiasi altro. Questo è il lascito della Seconda Repubblica, sulle cui ragioni non si è riflettuto abbastanza.
Le proposte per il futuro, l’eterna chiacchiera su una
“legislatura costituente” consentono di sperare che quel tempo
sia finito? Divenuta riferimento obbligato, l’Agenda Monti può
offrire un punto di partenza della discussione. Nelle sue
venticinque pagine, i diritti compaiono quasi sempre in maniera
indiretta, nel bozzolo di una pervasiva dimensione economica, sì
che gli stessi diritti fondamentali finiscono con l’apparire
come una semplice variabile dipendente dell’economia. Si dirà
che in tempi difficili questa è una via obbligata, che solo il
risanamento dei conti pubblici può fornire le risorse necessarie
per l’attuazione dei diritti, e che comunque sono significative
le parole dedicate all’istruzione e alla cultura, all’ambiente,
alla corruzione, a un reddito di sostentamento minimo. Ma, prima
di valutare le questioni specifiche, è il contesto a dover
essere considerato. Inquieta, poi, l’accenno alle riforme della nostra Costituzione che sembra dare per scontato che la via da seguire possa esser quella che ha già portato alla manipolazione dell’articolo 41, acrobaticamente salvata dalla Corte costituzionale, e alla “dissoluzione in ambito privatistico” del diritto del lavoro grazie all’articolo 8 della manovra dell’agosto 2011. Ricordo quest’ultimo articolo perché si è proposto di abrogarlo con un referendum, unico modo per ritornare alla legalità costituzionale e non bieco disegno del terribile Vendola. Un’agenda che riguardi il lavoro, oggi, ha due necessari punti di riferimento: la legge sulla rappresentanza sindacale, essenziale strumento di democrazia; e il reddito minimo universale, considerato però nella dimensione dei diritti di cittadinanza. E i diritti sociali, la salute in primo luogo, non sono lussi, ma vincoli alla distribuzione delle risorse.
Colpisce il silenzio sui diritti civili. Si insiste sulla
famiglia, ma non v’è parola sul divorzio breve e sulle unioni di
fatto. Non si fa alcun accenno alle questioni della procreazione
e del fine vita: una manifestazione di sobrietà, che annuncia un
legislatore rispettoso dell’autodeterminazione delle persone, o
piuttosto un’astuzia per non misurarsi con le cosiddette
questioni “eticamente sensibili”, per le quali il ressemblement montiano
rischia la subalternità alle linee della gerarchia vaticana,
ribadite con sospetta durezza proprio in questi giorni? Si
sfugge la questione dei beni comuni, per i quali si cade in un
rivelatore lapsus istituzionale: si dice che, per i servizi
pubblici locali, si rispetteranno “i paletti posti dalla
sentenza della Corte costituzionale”, trascurando il fatto che
quei paletti li hanno piantati ventisette milioni di italiani
con il voto referendario del 2011.
*la Repubblica, 3 gennaio 2013
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