Se la Chiesa torna a criticare la neutralità dello Stato
di Stefano Rodotà
Alla vigilia di un anniversario simbolico, i millesettecento anni dell’Editto di Costantino, il cardinale di Milano ha mosso una critica radicale alla laicità dello Stato, rivendicando l’assoluto primato della libertà religiosa e sottolineando i rischi che essa corre nel tempo che viviamo. Lo ha fatto costruendo un modello di comodo, di cui Vito Mancuso ha bene messo in luce le omissioni poiché, tra l’altro, non si fa parola delle persecuzioni alle quali proprio i cristiani sottoposero i fedeli di altre religioni. Quell’“inizio della libertà dell’uomo moderno”, che l’Editto di Costantino avrebbe aperto, in realtà ha avuto altri inizi e altre traiettorie. Si dovrà attendere il Rinascimento, con la sua esclamazione “magnum miraculum est homo”. Si dovrà attendere l’affermazione piena della libertà che trovò la sua tavola nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, vero concilio laico quasi due secoli prima del Vaticano II, che aprì le vie per la libertà di tutti.
Se oggi vogliamo discutere di laicità, non possiamo ignorare tutto questo, né rifugiarci in una visione caricaturale della laicità attribuita al suo modello francese. Viene da chiedersi la ragione di un riduzionismo così poco accorto da parte di un prelato non sprovvisto di cultura e visione storica. Un interrogativo che merita qualche riflessione, proprio perché oggi il principio di laicità dello Stato si confronta con un nuovo bisogno di sacro che percorre le nostre società e, insieme, si presenta come ineludibile punto di riferimento di fronte alla “nuova intolleranza religiosa” (è il titolo dell’ultimo libro di Martha Nussbaum). Se questo è un itinerario per individuare equilibri adeguati tra religione e Stato, il cammino indicato da Angelo Scola non è certo quello che consente una discussione utile.
Come viene rinverdita la critica alla secolarizzazione? Partendo da due premesse. Dice Scola: «se la libertà religiosa non diviene libertà realizzata posta in cima alla scala dei diritti fondamentali, tutta la scala crolla». E aggiunge: «fino a qualche decennio fa si faceva riferimento sostanziale ed esplicito a strutture antropologiche generalmente riconosciute, almeno in senso lato, come dimensioni costitutive dell’esperienza religiosa: la nascita, il matrimonio, la generazione, l’educazione, la morte».
Il primato della libertà religiosa individua così una forma di Stato che nel fattore religioso trova l’unica legittimazione possibile. Questo vuol dire che lo Stato non può essere individuato come spazio di convivenza di opinioni e credenze diverse, secondo la versione che la laicità è venuta assumendo, con l’abbandono una laicità puramente “oppositiva” nei confronti della religione.
E, parlando di strutture antropologiche, in realtà ci si riferisce ai molti no che la Chiesa ha pronunciato: no alla procreazione assistita; no al riconoscimento giuridico di forme di convivenza diverse dal matrimonio eterosessuale; no alla scuola pubblica come struttura essenziale per la conoscenza e l’accettazione dell’altro; no al testamento biologico.
In queste posizioni vi è più che una ripulsa della laicità. Vi è la negazione della libertà della coscienza e l’affermazione che la definizione dell’antropologia del genere umano è prerogativa della religione. Non siamo di fronte a una discussione dei temi complessi della secolarizzazione, ma al programma di una restaurazione impossibile, dunque destinato non a promuovere dialogo, ma conflitti intorno alla ritornante affermazione di valori “non negoziabili”.
A proposito di antropologia, vale la pena di ricordare la critica di Zygmut Bauman alla tesi secondo la quale, nella fase premoderna, fosse la religione a dare senso alla vita. È dunque una acquisizione storica e culturale quella che riguarda la forte presa della religione cattolica sui temi dell’etica, non un dato indissolubilmente legato al fattore religioso. Con il trascorrere del tempo, quel legame è stato sciolto grazie all’ampliarsi della riflessione etica e al sorgere di una nuova antropologia, prodotta dalla rivoluzione scientifica e tecnologica. Contro questa antropologia si leva la difesa della “natura” impugnata da un fondamentalismo religioso che mostra non tanto una attitudine antiscientifica, quanto piuttosto una incapacità di comprendere le nuove dimensioni del mondo e dell’umanità. È proprio il pensiero laico, invece, a forgiare gli strumenti perché non ci si arrenda ad una deriva tecnologica, con la sua capacità di garantire l’umano attraverso i principi di eguaglianza e dignità, di autodeterminazione della persona.
Non è vero, peraltro, che la dimensione istituzionale sia posseduta soltanto da un riconoscimento della libertà religiosa come fatto squisitamente individuale. L’articolo 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea afferma che alle persone appartiene la «libertà di manifestare la propria religione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato». La piena laicità di questa affermazione consiste nel fatto che non siamo di fronte a un privilegio o ad una supremazia, ma ad una libertà che si misura con tutte le altre. L’opposto della ricostruzione del cardinale Scola della laicità come imposizione di un unico punto di vista, mentre essa è un metodo che permette a tutti i punti di vista di convivere in modo fecondo, offrendo proprio alla religione la più civile delle garanzie.
la Repubblica, 13
dicembre 2012