Mentre le
cifre della disoccupazione sono
sempre più drammatiche, il
governo non pare avere alcuna
idea per creare d’urgenza un
congruo numero di posti di
lavoro. I rimedi proposti alla
spicciolata, dalla riduzione del
cuneo fiscale alle facilitazioni
per creare nuove imprese, dagli
sgravi di imposta per chi assume
giovani alla semplificazione
delle procedure per l’avvio di
cantieri e grandi opere, non
sfiorano nemmeno il problema.
Per di più il governo sembra
sottovalutare la gravità della
situazione. La disoccupazione di
massa rappresenta tutt’insieme
un’enorme perdita economica, uno
scandalo intollerabile dal punto
di vista umano, e un minaccioso
rischio politico. Sotto il
profilo economico, quasi tre
milioni di disoccupati
comportano una riduzione del Pil
potenziale dell’ordine di 70-80
miliardi l’anno. Anche se
ricevono un modesto reddito dal
sussidio di disoccupazione o dai
piani di mobilità, i disoccupati
sono lavoratori costretti loro
malgrado alla passività. Non
producono ricchezza sia perché
non lavorano, sia perché i mezzi
di produzione, cioè gli impianti
e le macchine che potrebbero
usare, giacciono inutilizzati.
Un’altra perdita economica
deriva dal fatto che lunghi
periodi di disoccupazione
comportano che le capacità
professionali si logorano e sono
difficili da recuperare.
Dal punto di vista umano la
disoccupazione di massa, insieme
con la povertà che diffonde, è
uno scandalo perché i loro
effetti, come ha scritto Amartya
Sen, scardinano e sovvertono la
vita personale e sociale.
Elementi fondamentali di questa,
dall’indipendenza personale alla
possibilità di accedere per sé e
i figli a una vita migliore,
dalla realizzazione di sé alla
sicurezza socio-economica della
famiglia, sono strettamente
legati alla disponibilità di un
lavoro stabile, dignitosamente
retribuito. Quando esso viene a
mancare, anche tali elementi
crollano, e la persona, la
famiglia, la comunità sono
ferite nel profondo delle loro
strutture portanti.
Quanto al rischio politico,
qualcuno dovrebbe ricordarsi che
uno dei fattori alla base
dell’ascesa del fascismo e ancor
più del nazismo è stata la
disoccupazione di massa. E la
capacità di ridurla mostrata da
tali regimi dopo la crisi del
’29 è una delle ragioni del
sostegno popolare di cui hanno
goduto fino alla guerra che li
ha abbattuti. Di certo oggi né
l’uno né l’altro dei due regimi
avrebbero la stessa faccia. Ma i
sintomi di autoritarismo che
affiorano in Europa, e i
movimenti di estrema destra
dagli alti tassi elettorali in
almeno dieci Paesi, non sono da
sottovalutare. Sperando che
qualche movimento non cominci a
promettere “ridurrò la
disoccupazione a zero”. La
promessa che fece e poi mantenne
Hitler, fra il 1933 e il ’38.
Poiché le austere ricette dei
tecnici finora hanno aggravato
il tasso di disoccupazione
anziché ridurlo, sarebbe ora di
pensare a qualcosa di più
efficace, e magari
sperimentarlo. Ho fatto
riferimento altre volte all’idea
che sia lo Stato a creare
direttamente occupazione, in
merito alla quale esistono
solidi studi. Tempo fa si
chiamavano schemi per un “datore
di lavoro di ultima istanza”, ma
oggi si preferisce chiamarli
schemi di “garanzia di un posto
di lavoro” (job guarantee,JG);
il che non significa affatto una
garanzia per quel posto di
lavoro, ma per un posto di
lavoro dignitoso e
ragionevolmente retribuito.
Coloro che elaborano simili
schemi sono economisti e
giuristi americani, australiani,
canadesi, argentini, indiani; i
quali, diversamente dai nostri
governanti di oggi e di ieri,
sembrano tutti aver meditato
sull’articolo 4 della nostra
Costituzione, quello per cui “la
Repubblica riconosce a tutti i
cittadini il diritto al lavoro”:
non del lavoro, si noti, di cui
tratta invece l’articolo 35. Il
primo mai attuato, il secondo in
via di estinzione nella
legislazione e nelle relazioni
industriali.
Uno schema di JG prevede che in
via di principio esso sia
accessibile a chiunque, essendo
disoccupato, vuole lavorare ed è
in grado di farlo. Di fatto
sarebbe inevitabile, visti i
numeri in gioco, dare la
preferenza a qualche strato di
persone in peggiori condizioni
di altre, quali, per dire, i
disoccupati di lunga durata.
L’attuazione di uno schema di JG
richiede un’agenzia centrale che
stabilisce le regole di
assunzione e i livelli di
retribuzione, e gran numero di
imprese (o centri di servizio o
cooperative) a livello locale
che assumono, al caso addestrano
e impiegano direttamente i
lavoratori, oppure li assegnano
a imprese locali in progetti di
immediata e rilevante utilità
collettiva. Dando la preferenza
a settori ad alta intensità di
lavoro e bassa intensità di
capitale, dai beni culturali ai
servizi alla persona, dal
recupero di edifici e centri
storici alla ristrutturazione di
scuole e ospedali. I centri
locali trattano con le imprese
le condizioni a cui esse possono
impiegare i lavoratori del
programma, dalla partecipazione
ai costi del lavoro fino
all’eventuale passaggio del
dipendente dal pubblico al
privato.
Trovare le risorse per
finanziare simili schemi è una
questione complicata, nondimeno
vari studi attestano che non è
impossibile risolverla. Prima
però di trattare tale tema c’è
una premessa inderogabile: deve
manifestarsi la volontà politica
di affrontare con nuovi mezzi la
catastrofe disoccupazione.
Chiedere a un governo
neoliberale di esprimere una
simile volontà è forse troppo,
ma le crisi sono sia uno
stimolo, sia una buona
giustificazione per cambiare
idee e politiche.
C’è una novità a livello europeo
che dovrebbe indurre
a discutere di simili schemi, e
magari a sperimentarnequalcuno
in singole regioni. Ai primi di
settembre 2012 si è svolta a
Bruxelles una conferenza
internazionale sulle politiche
del lavoro, organizzata dalla
Commissione europea. Una
sessione era dedicata a “La
garanzia di un posto di lavoro –
Concetto e realizzazione”. Hanno
perfino invitato a parlare uno
degli studiosi più noti e
polemici in tema di JG,
l’australiano Bill Mitchell.
Posto che nei programmi di JG
rivivono le teorie di Keynes in
tema di politiche
dell’occupazione, nonché la
memoria del successo che gli
interventi statali ebbero
durante il New Deal
rooseveltiano, aprire alla
discussione di tali programmi
uno dei templi della teologia
neo-liberale, qual è la
Commissione europea, è un segno
che qualcosa sta cominciando a
cambiare sul fronte ideologico
delle politiche del lavoro.
Il documento base della sessione
in parola formula varie domande:
“Quali sono i maggiori ostacoli
in Europa alla realizzazione di
schemi di garanzia d’un posto di
lavoro… volti ad affrontare la
crisi della disoccupazione?
Possono tali ostacoli venire
superati? In quali aree
potrebbero o dovrebbero essere
sviluppati degli impieghi
pubblici per disoccupati? Quanto
tempo ci vorrebbe prima che a un
disoccupato sia dato un lavoro
nel settore pubblico?”. Sono
domande a cui anche il nostro
governo dovrebbe cercare di dare
risposta, meglio se non soltanto
in forma cartacea. Dopotutto, ce
lo chiede l’Europa.