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Contro le Pussy Riot la volgarità
del tiranno
di Maria Mantello
Nadezhda Tolokonnikova e Maria
Alyokhina sono arrivate in questi
giorni nei gulag delle remote
regioni russe: Nadia al campo di
lavoro correttivo 14 in Mordovia,
Maria a quello 32 a Perm.
È il risultato della sentenza
d’appello del 10 ottobre, che
conferma la condanna in primo grado
del 17 agosto: due anni di carcere
per la preghiera punk «Holy Mother,
chase Putin out!», «Santa Madre,
caccia via Putin».
Una preghiera “demoniaca” per il
tribunale del regime putiano che le
ha recluse nelle colonie penali
perché si “possano ravvedere”.
A evitare questo epilogo tragico non
è valsa loro la solidarietà
internazionale, e tantomeno l’essere
tra le finaliste del premio Sakharov
2012, che il Parlamento europeo
assegna ogni anno a chi si batte per
i diritti umani e la libertà
d'espressione.
Adesso resta tanto dolore. E tornano
alla mente i versi che Alexander
Pushkin dedicò ai rivoluzionari
decabristi nel 1835: «Nel profondo
delle miniere siberiane conservate
la superba pazienza, non sarà vana
la vostra dolorosa fatica e l’alta
aspirazione dei pensieri».
Dolore e rabbia per una condanna
ingiusta che reprime la libertà, che
schiaccia l’anelito alla democrazia
ed è accanimento contro un gruppo
femminista.
«Se restavano a casa a cucinare,
oppure se andavano in ufficio a
lavorare non sarebbero state
coinvolte». Insomma zitte buone ha
detto Putin il 25 ottobre, a margine
del forum del Valdai Club. Da brave
femminucce, ha detto l’esperto di
donnine servienti, ergendosi a
difensore di «valori morali che sono
alla base di una società, e
sentimenti religiosi che vanno
difesi». Bella prova di
confessionalismo di Stato!
Ha vinto la repressione e l’ottusità
di un regime benedetto da una chiesa
ortodossa che va alla riconquista
ideologica del paese. Ha vinto la
santa alleanza che le coraggiose
Pussy Riot hanno denunciato con
quella ormai famosissima esibizione
del 21 febbraio scorso a Mosca nella
cattedrale di Cristo Salvatore.
Ha vinto la brutalità, l’arroganza,
l’impunità del neo zar, che
ripropone gli schemi sessisti e che
si dice scandalizzato per la
volgarità del nome scelto dalla rock
band, ma che ama i proclami da
coatto: «spalmeremo il fegato degli
oppositori sull'asfalto».
«Può la musica cambiare il mondo? -
ha scritto il chitarrista e
cantautore inglese Billy Bragg nel
suo messaggio di solidarietà alle
Pussy Riot - soltanto in circostanze
molto speciali e solo una volta in
una generazione, una band può creare
un momento nel quale la società
cambia».
Allora non dorma troppo tranquillo
nei suoi lettoni Putin, perché la
forza della rivoluzione veicola
proprio sul dolore e la rabbia che
il tiranno alimenta. E forse questa
volta si chiama Pussy Riot.
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