Una
sinistra oltre il montismo
di Alberto Asor Rosa
Di sicuro il governo Monti non è il nostro
governo. Ma qual è il nostro governo? E, più
esattamente: noi chi siamo? Andiamo per ordine.
Il governo Monti ha assunto come proprio
obbiettivo la salvezza nazionale (compito
sicuramente da non sottovalutare da qualsiasi
angolo visuale) e ha avuto dalla sua fin
dall'inizio formidabili strumenti di sostegno,
pressione e intervento, che gli hanno consentito
di sopravvivere, e perfino in taluni casi
prevalere, in condizioni difficilissime. Però,
cammin facendo, sempre più si è chiarito che non
si tratta di un governo tecnico (tecnico, dunque
politico, politico ma anche tecnico....
ricordate le discussioni all'inizio?) ma di un
governo ideologico.
Per governo ideologico intendo un governo che fa
discendere la propria azione da uno schema
precostituito, al quale la realtà va
progressivamente (e diciamo pure, talvolta
ferocemente) adattata. Questa ideologia è quella
che promana da Bruxelles e s'incontra, e
talvolta (morbidamente) si scontra con quella di
Berlino, per produrre alla fine una sorta di
surplus identitario che invade giornali, media e
opinione pubblica, risultando dominante, anzi
(come comunemente si dice) pressoché unico.
Liberismo spinto e privatismo senza
condizionamenti di sorta ne costituiscono i
presupposti. Le vittime designate: il pubblico e
i diritti. Del resto, come stupirsene? Quasi
tutti i membri di questo governo vengono, in
varie forme, dal privato, e al privato
inevitabilmente guardano come al loro luogo di
elezione. Per essere un governo tecnico-politico
quello Monti s'è davvero allargato oltre misura.
Date le premesse era lecito aspettarsi che esso
si applicasse ad alcune urgenti ragioni di
restauro economico. Invece le medesime
logiche-ideologiche sono ormai applicate su
larga scala anche nei settori della sanità,
della formazione, della ricerca e dell'ambiente.
Il fatto che il nucleo dell'attacco allo stato
sociale sia collocato nella produzione e nel
lavoro ci induce a dimenticare, o a mettere in
secondo piano, questi altri settori della
strategia, ma l'attacco è ovunque in atto.
Il governo Monti, insomma, è il governo a più
ampio e organico spettro che ci sia stato nella
storia repubblicana.
Può fare a meno infatti dei condizionamenti e
dei compromessi della sempre più odiata politica
(e cioè del "gioco democratico"), cose che molti
commentatori sempre più trionfalmente
condividono ed esaltano. Alla fine del processo
la società costruita in sessant'anni di lotte
intorno ai principi della solidarietà e del
mutuo soccorso sarà profondamente cambiata: e
noi avremo a che fare con una società della
concorrenza e della forsennata lotta per la
sopravvivenza.
Del governo che noi vogliamo (o meglio: che noi
vorremmo), questo almeno si può dire: e cioè che
dovrebbe avere l'intenzione ed essere in grado
di andare al di là sia del berlusconismo sia del
montismo. È possibile questo? Se ce ne fossero
le forze, sarebbe possibile. Tecnicamente,
infatti esistono le condizioni per mirare ad
attraversare la crisi senza rinunciare al
patrimonio comunitario e solidaristico che ci
sta alle spalle, ossia senza continuare a
massacrare le vittime. Non parlo naturalmente di
un governo radicale ed estremistico, ma di un
governo riformista, seriamente riformista: e
cioè di quel modello politico-sociale che in
tutta Europa è l'unico ad offrire le condizioni
oggi per opporsi allo strapotere del liberismo e
del capitale finanziario, senza pensare di
andare, come si diceva una volta, "fuori
sistema".
Ma ce ne sono le forze? Qui comincia il discorso
politico che partiti e movimenti si rimpallano
da mesi senza arrivare a delineare neanche alla
lontana non una soluzione ma un semplice,
preliminare discorso. Prima di arrivarci
bisognerebbe chiarire un punto.
L'antipolitica dilaga in Italia non perché ci
sono troppi partiti prepotenti e cattivi, ma
perché non ci sono partiti. Ognuna delle
formazioni politiche, di destra e di sinistra,
che si contendono il campo, è un organismo
provvisorio e caotico, tenuto insieme dal
prestigio (spesso poco attendibile) di un capo.
L'unico partito meno non partito degli altri è
indubbiamente il Pd: argomento che gli assicura
almeno alcune chances di partenza rispetto alle
altre formazioni concorrenti o convergenti. Ma
che partito è anche il Pd? Il frutto dei
colossali errori commessi fra il 1989 e gli anni
'90, un organismo non coeso e spesso incoerente
e al proprio interno contraddittorio, per niente
simile ai grandi partiti riformatori europei.
Sono questi gli anni in cui per molte, e anche
molto serie, ragioni si è consumata la
catastrofe delle vecchie forme di organizzazione
politica italiana, la Dc, il Pci, il Psi, e
nulla le ha seriamente sostituite.
È un punto di vista nostalgico, novecentesco?
Non pare: in Francia Hollande non è concepibile
senza il Partito socialista; in Germania
l'alternativa alla Merkel non è concepibile
senza la Spd. In Italia, al contrario, persino
l'ondata delle spinte rinnovatrici, che pure da
molte parti positivamente si leva, non fa che
moltiplicare la confusione in atto e il
cacicchismo (anche a sinistra) che sembra
proprio di questa fase storica della vita
politica italiana (persino il Movimento 5
Stelle, che s'oppone a tutto, può esser fatto
rientrare perfettamente all'interno di questo
schema, anzi ne rappresenta il prodotto più
tipico).
Costruire la prospettiva di un serio governo
riformista post-berlusconiano e post-montista
coincide dunque con la prospettiva di costruire
un serio partito riformatore, democratico e
socialista, capace di rappresentarne l'anima e
di costituirne il detonatore, anche elettorale.
Tronti dice che con la seconda Repubblica sono
finite le due sinistre, ora ce n'è una sola. In
teoria può anche esser vero. Ma in pratica che
vuol dire? Affinché l'operazione storica di
superamento di quella che io chiamo la decadenza
italiana - quella viziosa e corrotta del
berlusconismo e quella per bene e violenta del
montismo - si realizzi, ci vuole qualcosa di più
di una formula.
L'unica strada possibile per sapere chi siamo e
se e con chi possiamo stare insieme è quella dei
contenuti. Io ne propongo due: lavoro e
ambiente. Niente di pacifico e di scontato,
beninteso. Le mie esperienze degli ultimi anni
mi spingono anzi a pensare che siano due
fondamentali campi tematici in potenziale
conflitto fra loro, soprattutto in tempo di
crisi. Ma senza un programma che si proponga
invece di metterli in perfetta coerenza fra loro
e li faccia lavorare l'uno a favore dell'altro,
non andremo da nessuna parte, perché le due
questioni, messe insieme, fanno la nostra storia
futura, anzi, la storia umana futura (a livello
mondiale, beninteso).
La mia proposta è che il Pd e le altre forze
orientate a lavorare per il nuovo governo
riformatore indicano per l'autunno una grande
assemblea programmatica, aperta a chiunque sia
interessato a parteciparvi in questa
prospettiva, nel corso della quale si discutano
i contenuti, le forme e le condizioni
dell'intera operazione (che per l'appunto
dovrebbe fin dall'inizio esser duplice, di
partito e di governo).
Si parla tanto di rapporti da costruire o
ricostruire fra politici e società civile. Quale
altro modo migliore di questo per verificarne
opportunità e modalità? L'egemonia si conquista
mettendosi a confronto e dunque a rischio, non
chiudendosi nelle estenuanti e inconcludenti
trattative tra forze, piccolo o grandi,
organizzate.
Una terza via non esiste: o c'è risposta su
questo punto o non ce n'è alcuna. Se non si
opera in questo senso, si va nell'altra
direzione possibile: quella che metterà insieme
(continuerà a mettere insieme) berlusconismo
(anche senza Berlusconi) e montismo (anche senza
Monti). Di ciò già si mormora e sussurra nelle
celate stanze del potere: una grosse koalition,
realizzata però in Italia senza le forti
identità partitiche, che altrove l'hanno
prescelta e in qualche modo controllata. Cioè
ancora una volta fuori e contro la politica:
cioè, tendenzialmente, sempre più
tendenzialmente, fuori e contro la democrazia. I
tempi sono stretti, non c'è molto tempo per
pensarci.
il manifesto, 13 luglio 2012