Da Pacelli a Ratzinger. La lunga
crisi della Chiesa
di Eugenio Scalfari*
La vecchia Italia affondò durante una giornata gonfia di
tempesta e di presagi, nell'autunno del 1958: Papa Pio XII
moriva in mezzo a una corte disfatta di cardinali decrepiti, di
astuti procacciatori d'affari, di monache fanatiche, di nipoti
parassiti. Nel palazzo papale di Castel Gandolfo, mentre il
temporale gonfiava le acque del lago e lo scirocco spalancava le
imposte e si ingolfava tra le tende e nei corridoi, dignitari
laici ed ecclesiastici si preparavano a sgombrare. Ciascuno
cercava di portar via, anche fisicamente, quanto più poteva; ma
soprattutto ciascuno brigava per conservare qualche beneficio;
una carica lucrosa, una fetta, per piccola che fosse, di quel
potere che fino a quel momento da oltre dieci anni era stato
amministrato senza scrupoli e senza concorrenze. L'affanno era
visibile dovunque, nelle sale di ricevimento, nelle anticamere e
fino intorno al letto del moribondo che, già in agonia, veniva
impudicamente fotografato dal suo medico e dalla sua suora
assistente, con la cannula dell'ossigeno in bocca, e i tratti
del volto devastati dalle ombre della morte. Non era l'affanno
della pietà; era l'affanno della cupidigia e della paura perché
tutti sapevano, entro il palazzo, che non moriva un Papa ma
finiva un regno.
Nel salotto privato del Papa, circondato dai porporati più
anziani e potenti, dai capi del Sant'Uffizio, delle Missioni,
del Tesoro, dei Seminari, il Camerlengo della Chiesa
rappresentava l'ultimo anello d'una continuità che stava per
spezzarsi definitivamente Aveva, come sempre, un volto
assolutamante inespressivo; non era un uomo ma una carica, una
funzione, una pausa del cerimoniale. Ma intorno a quella carica
e all'uomo che ci stava dentro si andava tessendo proprio in
quelle ore e in quel luogo la trama del conclave. Aloisi Masella,
il Camerlengo, fu il primo e forse decisivo mediatore insieme ad
Agagianian, il prefetto di propaganda Fide, tra il gruppo dei
cardinali stranieri e i curiali. Cominciò di lì la ricerca che
si sarebbe conclusa qualche settimana dopo sotto le volte della
Sistina con un risultato che avrebbe sconvolto tutti i
programmi, di un terzo uomo, un Papa che avrebbe dovuto essere
al tempo stesso abbastanza pastorale per assorbire le
irrequietezze della cattolicità, abbastanza diplomatico per non
dimenticare le leggi del potere, abbastanza umile per restituire
al Collegio e agli Episcopati le prerogative che Pacelli aveva
confiscato. E abbastanza vecchio per non durare troppo a lungo.
Quando in quell'alba di tuoni e di vento il medico del Papa,
Galeazzi Lisi, ne ebbe dichiarato la morte clinica, dignitari,
curiali, camerieri segreti, banchieri, politici, fuggirono verso
Roma su grandi automobili nere per preparare l'incerto avvenire.
Uno stuolo di corvi abbandonava le strutture corrose d'un luogo
dal quale una monarchia assoluta aveva governato un paese.
Il brano che avete letto è tratto da un mio libro intitolato
L'autunno della Repubblica del 1969, nel pieno del movimento
studentesco. Il capitolo qui citato s'intitola "La fine d'un
regno" e racconta appunto la morte di Papa Pacelli, Pio XII, che
impersonò per lunghi anni la Chiesa trionfante e combattente che
conteneva però fin da allora quella crisi sistemica di cui parla
il cattolico Alberto Melloni, uno degli storici della Chiesa più
accreditati in questa materia.
Gli avvenimenti in corso segnano il momento culminate di questa
crisi: la destituzione di Gotti Tedeschi dalla guida dello Ior,
l'arresto del maggiordomo del Papa, Paolo Gabriele, la sorda
lotta in corso tra le diverse fazioni curiali e anticuriali, la
posizione sempre più traballante del Segretario di Stato,
Tarcisio Bertone. Infine, la disperazione di Papa Ratzinger,
chiuso nelle sue stanze e manifestamente incapace di tener ferma
la barra in un mondo pervaso da cupidigie, ambizioni, complotti
e contrastanti visioni della Chiesa futura.
Non mi occuperò tuttavia delle inchieste in corso, che il nostro
giornale ha già ampiamente trattato in questi giorni e ancora
oggi con tutti gli aggiornamenti di cronaca. Mi interessa invece
- e spero interessi i nostri lettori - di dare un'occhiata di
insieme ai pontificati che si sono susseguiti da Pacelli a
Ratzinger. Sono stati attraversati tutti dal filo rosso del
confronto tra la Chiesa e la modernità. Perciò questi
pontificati meritano una speciale attenzione per capire quale
sia l'essenza di questa crisi sistemica che avviene sotto i
nostri occhi.
Il conclave che elesse Giovanni XXIII venne dopo la monarchia
assoluta ma molto avveduta di Pio XII, un diplomatico per
eccellenza che governò la Chiesa in tempi durissimi, con la
guerra in corso e poi a guerra finita con la ricostruzione della
democrazia e il governo della Dc degasperiana.
Pacelli ebbe tutti i difetti e tutte le qualità dei grandi
pontefici. Abbiamo detto che eccelse nelle capacità diplomatiche
e lo dimostrò ampiamente, soprattutto nel tormentatissimo
periodo dell'occupazione nazista di Roma. Ma non mancava di
pastoralità e neppure di grandi capacità sceniche. È ancora
negli occhi di tutti i suoi contemporanei la sua visita al
quartiere di San Lorenzo in Roma distrutto dal bombardamento
americano, dove la sua veste bianca fu macchiata di sangue
quando s'inoltrò tra le rovine per benedire i morti e soccorrere
i feriti ancora distesi nelle strade devastate.
Il partito conservatore era anche allora asserragliato in Curia.
Il Papa si guardò bene dal disperderlo, anzi lo rafforzò purché
si sottomettesse. Decideva lui quando era il caso di farlo
emergere o di farlo tacere. Del resto chi parlava per lui era il
gesuita padre Lombardi, detto "il microfono di Dio" che
combatteva i socialcomunisti a spada sguainata. Un'altra spada
era nelle mani di Gedda e dei comitati civici che sconfessavano
addirittura la politica di De Gasperi che non fu più ricevuto in
Vaticano in udienza privata.
Ma Pacelli era anche nepotista nel senso classico e familista
del termine. Era un principe e come tale si comportò e come
tutti i principi indulse anche al populismo: riceveva ogni sorta
di categorie della società civile: medici, avvocati, giornalisti
cattolici, ciclisti e calciatori, casalinghe, poliziotti e
militari, attori e operai, imprenditori e barbieri. Il populismo
di Berlusconi fa ridere rispetto a quello di Pio XII che ora è
in predicato di santità.
Papa Giovanni fu l'esatto contrario sia pure con alcuni
condizionamenti. Fu eletto con una condizione: che restituisse
alla Curia la sua indipendenza funzionale. A questo mandato si
tenne fedele ma i curiali non avevano messo in conto che il Papa
era comunque in grado di procedere a nuove nomine quando la
morte avesse aperto vuoti nella gerarchia. C'era bisogno d'un
Papa soprattutto pastorale e lo ebbero nel senso più pieno della
parola. Giovanni fu molto più pastore che Romano Pontefice. Il
fisico lo aiutava e l'eloquio anche ma soprattutto lo aiutò
l'anima sua o se volete lo Spirito Santo. Amava i bimbi, le
mamme, la famiglia, i poveri, gli esclusi.
Richiamò Montini alla Segreteria di Stato e convocò il Concilio
Vaticano II dove affluirono i vescovi di tutto il mondo
cattolico. Era passato un secolo dal Vaticano I che si radunò a
poca distanza di tempo dalla fine del potere temporale dei Papi.
Lì fu proclamato il Papa-Re, infallibile quando parla dalla
cattedra, e fu elevata a dogma la verginità di Maria.
Il Vaticano II proclamò invece la necessità che la Chiesa si
confrontasse con la modernità. Fu una rivoluzione, avviata ma
ovviamente non compiuta. Fu la scelta d'un tema che doveva
essere portato avanti a cominciare dalla modernizzazione della
Chiesa, lo sconvolgimento della liturgia, la messa recitata
nelle lingue correnti e non più in latino, col sacerdote rivolto
ai fedeli e non più di spalle; l'apertura del dibattito sul
ruolo dei laici e delle donne. Infine, il disinteresse del
Vaticano nei confronti della politica italiana e quindi
l'autonomia dei cattolici impegnati.
Ma su un punto i curiali avevano visto giusto: nel suo quarto
anno di pontificato il Papa si ammalò, nel quinto anno morì.
Ricordo ancora i funerali: una folla immensa che dalla piazza
arrivava al Tevere ed oltre, tutte le vie gremite da piazza
Cavour e da Villa Pamphili, tutto Borgo Pio. Un Papa come lui
non si era visto da gran tempo e non s'è più visto da allora.
* * *
Poi venne Montini. Di dire che ebbe qualità pastorali sarebbe
dir troppo. Diplomatico, certo. Di populismo neppure l'ombra. Fu
un politico, forse fin troppo. Ma non conservatore.
Il confronto con la modernità non lo portò avanti ma impedì che
ci fossero ulteriori arretramenti. Fu un pontificato con fasi
drammatiche in quegli anni di piombo culminati con l'assassinio
di Aldo Moro, del quale officiò la messa funebre in Laterano.
Fu un Papa di interregno.
Forse Papa Luciani aveva con Papa Giovanni qualche lontana
somiglianza ma morì dopo appena un mese. Dopo di lui salì in
cattedra un cavallo di razza, un grande, grandissimo attore. Non
so se la Chiesa avesse bisogno d'un attore, ma lui lo fu dalla
testa ai piedi, nel momento dell'elezione, nel momento
dell'attentato, nel momento della rivoluzione in Polonia, nel
momento della caduta del Muro, nei suoi viaggi continui intorno
al globo, nel Giubileo del 2000 e nella lunga fase della
malattia e poi della morte.
Quando il Camerlengo pronunciò il suo nome dopo la fumata bianca
dal camino della Sistina, tutta la piazza pensò che avessero
eletto un Papa africano. Solo quando si affacciò si capì che era
un bianco ma non italiano. "Se mi sbaglio mi corrigerete"
ricevette un'ovazione da stadio e così cominciò.
Fino a Solidarnosc e poi alla caduta del Muro di Berlino,
Wojtyla fu il Papa della libertà religiosa contro il
totalitarismo comunista. In Occidente ebbe l'appoggio dei
conservatori, dei liberali, dei democratici. Caduto il comunismo
accentuò la sua critica verso il capitalismo ma
contemporaneamente represse la "nuova teologia" e l'esperienza
dei preti operai. L'indifferenza nei confronti dell'assassinio
del vescovo Romero mentre officiava la messa in Salvador fu una
delle pagine sgradevoli del suo pontificato, compensata tuttavia
dalla sua peregrinazione ininterrotta in tutti gli angoli del
mondo dove gli fu possibile arrivare.
Tentò d'avviare la riunificazione delle Chiese cristiane senza
tuttavia compiere passi avanti significativi. Riconobbe le colpe
storiche della Chiesa a cominciare dall'accusa di deicidio
contro gli ebrei e dalla condanna di Galileo e di Giordano
Bruno.
L'agonia fu molto lunga e scenicamente grandiosa. Non certo per
calcolo ma per autentica vocazione. "Santo subito" fu
l'invocazione della folla immensa che anche per lui occupò mezza
città.
Un bilancio? I problemi della Chiesa alla sua morte erano gli
stessi: potere della gerarchia, emarginazione del popolo di Dio,
crisi delle vocazioni, crisi della fede in tutto l'Occidente,
nessuna modernizzazione all'interno della Chiesa. Ma una
modifica sì, si era nel frattempo verificata: il messaggio del
Vaticano II non solo non aveva fatto passi avanti, ma li aveva
fatti all'indietro. Non a caso al Conclave i martiniani furono
marginalizzati fin dalla prima votazione e dalla seconda emerse
Ratzinger mentre Ruini era pronto a intervenire se Ratzinger
fosse stato battuto.
* * *
Benedetto XVI non è un grande Papa anche se l'ingegno e la
dottrina non gli mancano. Non è un attore, anzi è il suo
contrario. Wojtyla aveva un guardaroba grandioso perché tutto
era grandioso in lui. Il guardaroba di Ratzinger è invece
lezioso perché è il Papa stesso ad esser lezioso, come si veste,
come parla, come cammina. Scrive bene, questo sì, i suoi libri
sul Cristo si fanno leggere, le sue encicliche non sono prive di
aperture ed anche alcuni suoi discorsi. La sua rivalutazione di
Lutero ha suscitato sorpresa e qualche speranza di progresso
verso la modernità, contraddetto però dalle sue scelte
operative, dalla conferma di Sodano in segreteria e poi
all'avvicendamento con Bertone: dal mediocre al peggio. Bertone:
un Ruini senza l'intelligenza e la duttilità dell'ex vicario ed
ex presidente della Cei. La gerarchia è ridiventata onnipotente
ma spaccata in molti pezzi. L'ecumenismo è ormai è un fiore
appassito anzitempo.
Benedetto XVI ha riesumato in pieno la tomistica di Tommaso
d'Aquino con tanti saluti ad Origene, Anselmo d'Aosta e
Bernardo. Agostino sembrava uno degli ispiratori di Ratzinger,
ma quale Agostino? Il manicheo, il coadiutore di Ambrogio o
l'autore delle Confessioni? Agostino fu molte cose insieme
arrivando fino a Calvino, a Giansenio e a Pascal. Se volesse
dire qualche cosa di veramente attuale Papa Ratzinger dovrebbe
dare inizio alla beatificazione di Pascal ma mi rendo conto che
nel mondo dei Bertone, della Curia romana e delle attuali
Congregazioni, questo sì, sarebbe un gesto radicale verso la
modernità. Non lo faranno mai.
Il pontificato lezioso andrà avanti finché potrà, poi non ci
sarà il diluvio ma una pioggia da palude piena di rane, zanzare
e qualche anitra selvatica. Quanto di peggio per tutti.
* la Repubblica, 27 maggio 2012