La Francia chiama
di Rossana Rossanda*
François Hollande, socialista, è il nuovo presidente di Francia.
Ed è la prima grossa spina nel fianco dell’Europa liberista.
Della quale rifiuta le politiche di rigore e quindi il trattato
intergovernativo sulla regola d’oro. Lo ha ripetuto
instancabilmente, ancora domenica a mezzanotte, davanti alla
folla stipata sulla piazza della Bastiglia, una folla mai vista,
inattesa, che si è raccolta in tutte le piazze dell’esagono,
prima di tutto in quella del suo collegio nella Corrèze, poi nel
piccolo aeroporto di Brive, poi all’arrivo nell’aeroporto del
Bourget e di là un corteo improvvisato di moto, auto, biciclette
ad accompagnarlo – corteo allegro fitto e pericoloso – fino a
Parigi, dove il servizio d’ordine ha stentato a fargli strada
fino al palco sulla Bastiglia.
La gente lo aspettava dalle otto, appena la vittoria era stata
annunciata, zeppa di giovani e giovanissimi, di inattese
bandiere di altri paesi, di gente felice. Felice era anche lui,
Hollande, ma – ha subito aggiunto – «felici sì, euforici no,
molte difficoltà ci attendono. Dovremo batterci, sia io che
voi».
Non si può dire che abbia seminato illusioni. È il primo
presidente socialista dopo Mitterrand, ma nel 1981 la situazione
era meno grave di oggi. Ha ribadito, martellandoli, gli impegni
cui non potrà sottrarsi. Due prioritari: più uguaglianza nei
mezzi (dunque più lavoro, priorità alla grande disoccupazione
giovanile, più potere d’acquisto con aumento subito del salario
minimo) e nei diritti (fine di ogni discriminazione degli
immigrati). E più giustizia redistributiva. Fine dei tagli nei
servizi sociali, sessantamila nuovi impieghi fra sanità e
scuola.
E tutto questo pagato come? Non solo con i risparmi, ma con la
crescita e tassando gli alti redditi fino al 75 per cento –
cagnara dell’opposizione, ignara che Roosevelt era arrivato
all’83. Tira un’aria di new-deal, la destra e i moderati di Le
Monde mettono le mani avanti.
È vero, ma Hollande, differentemente da
Sarkozy, è un economista; uscito dalla Ena ai primi posti, sa
che cosa è un bilancio, non straparla. Sa che la Francia ha un
debito pubblico maggiore del nostro, anche se di minori
proporzioni rispetto al Pil, ma sa anche che il rigore
unilaterale non porta da nessuna parte, se non alla catastrofe
economica della Spagna e a quella anche politica di una Grecia
spaccata in quattro.
Sa che di crescita si parla ormai un po’ dappertutto, ma le
ricette sono opposte: Hollande precisa che la sua si fa con
l’aumento degli occupati, l’incremento delle tecnologie, e la
tassazione degli alti redditi. Non crede affatto che si cresca
tassando duramente pensioni, salari, servizi sociali ed enti
locali, che riducono sia il potere d’acquisto dei più deboli sia
le entrate pubbliche, e non è affatto persuaso – come Monti e la
sinistra italiana – che i ricchi non devono essere disturbati
perché investano nella produzione. Essi investono nella finanza
«ed è la finanza – ha detto – il mio nemico». Pareva, al trio
Merkel Sarkozy Monti e alla stampa al loro seguito, che dovesse
venire giù il mondo. Ma i mercati sono più innervositi dalla
Grecia che dalla svolta francese.
Calmo, deciso, normale quanto era agitato Sarkozy, alla mano,
serio e non privo di humour, la vittoria di Hollande è quella di
un uomo deciso, con un’idea in testa e capace di tessere attorno
a sé tutte le forze del già rissoso Partito socialista e delle
altre sinistre. Prenderà formalmente i poteri il 15 maggio,
partirà subito per Berlino, poi per gli Stati Uniti, e al
ritorno sarà davanti alle elezioni legislative dalle quali deve
ricevere una maggioranza. È assai probabile che la avrà, e che
dovrà negoziare con Jean-Luc Mélenchon (Front de gauche), che lo
ha sostenuto con i suoi quattro milioni di voti, senza porre
condizioni ma in autonomia (nelle legislative può averne di più,
era arrivato nei sondaggi al 17 per cento, battendo il Fronte
nazionale nelle zone operaie) e con i Verdi, il cui basso
risultato al primo turno delle presidenziali si deve alle
strettoie della legge di de Gaulle. Mélenchon lo incalzerà sui
salari e sull’Europa, Eva Joly sul nucleare. Sull’Europa si
tratta di modificare, fra le regole, l’interdizione alla Bce di
finanziare gli Stati, sul nucleare di passare alle energie
alternative per sostituire ben 58 centrali (cui attinge anche
l’Italia). Un programma gigantesco, che incontrerà più ostacoli
a Bruxelles che a Washington.
Intanto, nell’interregno cui è costretto fino al 15 maggio e, in
buona parte, fino alle legislative, Hollande ha deciso due
piccole cose che poteva decidere – ha ridotto del 30 per cento
le indennità del presidente della Repubblica e dei ministri, e
ha interdetto il cumulo delle cariche, fine dei sindaci ministri
e dei ministri sindaci. Vecchia tradizione del notabilato che si
rompe, come si è rotto ieri il primato di Parigi nel cerimoniale
della nomina del Presidente. Hollande ha parlato prima nel suo
collegio che nella capitale ed è uno strappo grosso. Anche se la
capitale ha votato massicciamente per lui, come tutti i grandi
centri urbani, periferie difficile incluse. Il Fronte nazionale
appare forte ma radicato, salvo alcune zone al sud, nello
scontento delle campagne.
Insomma, tempi difficili ma un varco in Europa si è aperto. In
direzione opposta alla risorgenza delle destre. Farebbero bene a
pensarci in Italia sia Bersani, sia Giorgio Napolitano artefici
dell’unità nazionale liberista. E tutti gli araldi
dell’inevitabilità dell’antipolitica, dell’astensionismo e della
fine di una differenza fra destra e sinistra. Dove una sinistra
ha il coraggio di esistere e dichiararsi tale, può vincere. La
Francia, esplicitamente divisa, vede più chiaro e ha giocato una
carta che anche in Italia, se coraggio ci fosse, sarebbe
vincente.
* il manifesto, 8 maggio 2012