La truffa dell’indennizzo per avere
mano libera sui licenziamenti
di Maria Mantello*
Nessuno può essere licenziato senza una “giusta causa” (es.
furti o altri reati) o senza “giustificato motivo” (notevole
inadempimento degli obblighi contrattuali, ragioni inerenti
all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al
regolare funzionamento di essa).
Al di fuori della giusta causa o del giustificato motivo, il
licenziamento è nullo. Lo prevede il Codice civile, la legge n.
604 del 15 luglio 1966, lo Statuto dei diritti dei lavoratori
all’art.18.
Vale per ogni rapporto di lavoro. Vale per ogni azienda, contro
abusi di datori di lavoro che discriminano, emarginano fino al
licenziamento per ragioni estranee alla professionalità del
lavoratore.
Vale perché la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro, come
stabilisce fin dall’incipit la nostra Costituzione, che
individua nel lavoro il formidabile strumento di emancipazione
individuale e sociale per una società di liberi e di uguali.
La tutela del lavoratore, allora, non è un privilegio o un
interesse particolare, come qualcuno vorrebbe far credere, ma
valore d’investimento dello Stato liberal-democratico, perché
senza tutele contro i licenziamenti illegittimi i lavoratori
tornerebbero ad essere schiavi.
Per questo, come già prevedeva la legge 604/1966, il datore di
lavoro era tenuto a reintegrare il lavoratore da lui licenziato
senza giusta causa o giustificato motivo e a corrispondergli il
dovuto: «Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi
del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il
datore di lavoro é tenuto a riassumere il prestatore di lavoro
entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il
danno versandogli un'indennità di importo compreso tra un minimo
di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione
globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti
occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di
servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle
condizioni delle parti. La misura massima della predetta
indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il
prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e
fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità
superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che
occupa più di quindici prestatori di lavoro. (art. 8, L.
604/1966)».
L’art. 18 della legge 300 del 20 maggio 1970, avrebbe fatto del
reintegro il deterrente formidabile contro il licenziamento,
prevedendo il pagamento comprensivo di rivalutazione delle
mensilità non corrisposte e dei relativi contributi: «Il giudice
… condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito
dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata
l'inefficacia o l'invalidità stabilendo un'indennità commisurata
alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento
sino a quello dell'effettiva reintegrazione e al versamento dei
contributi assistenziali e previdenziali dal momento del
licenziamento al momento dell'effettiva reintegrazione».
E proteggendo il lavoratore dall’eventualità che potesse essere
liquidato con una somma sostitutiva del suo reintegro, stabiliva
che questa eventualità fosse possibile solo se richiesta dal
lavoratore: «… al prestatore di lavoro è data la facoltà di
chiedere al datore di lavoro in sostituzione della
reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici
mensilità di retribuzione globale di fatto».
Adesso tutto questo lo si vorrebbe azzerare, riportando il
lavoratore in totale balia del ricatto del licenziamento, e
lasciando al datore di lavoro (padrone?) la “legale” possibilità
di disfarsi di chi non gli aggrada più con una paccata di
benservito.
Un bel regalo per un padronato che l’art. 18 (se non tutto lo
Statuto dei lavoratori) non l’ha mai digerito e pertanto ha
cercato sempre rivincite, aspettando il momento opportuno per
ottenerle.
Col governo Berlusconi sembrava quasi cosa fatta. Ma la grande
manifestazione del 23 marzo 2002 con tre milioni di cittadini al
Circo Massimo a Roma riuscì a stoppare l’osceno disegno.
Adesso ci riprova il governo tecnico. Un governo che si dice di
risanamento, di cura, ma che il suo bisturi – tutto politico –
affonda nel corpo vivo dei lavoratori: dai tagli economici a
quelli delle più elementari tutele.
Allora, l’assalto proprio al simbolo della garanzia del diritto
al lavoro che l’articolo 18 rappresenta non è un caso. E il
fatto che il ministro Elsa Fornero, col suo eloquio al birignao
esaltato dagli algidi sorrisi d’ordinanza, pretenda di
spacciarlo per modernizzazione è solo esercizio di televendita,
funzionale all’incalzante dittatura di un capitalismo che fa
cassa sullo sfruttamento di chi lavora e di chi è licenziato.