Caro Monti, la Grecia è vicina
di Roberto Scarpinato*
Le misure di austerità, inevitabili e necessarie sono
irrealizzabili senza una democrazia funzionante e una classe
politica incorrotta. Ambedue le cose mancano in Grecia, a causa
di una storia postbellica caratterizzata da profonda sfiducia
nello Stato e da una cultura della legalità inesistente”. Con
queste parole, riportate da Barbara Spinelli in un suo articolo,
Alexis Papahelas, direttore del quotidiano Kathimerini, nel
giugno 2010 pronosticava l’irredimibilità della crisi del suo
paese, individuandone le cause in un male interno – sfiducia
nello Stato e illegalità dilagante – giunto ormai alla sua fase
terminale. Il caso greco offre importanti spunti di riflessione
per l’Italia, paese nel quale la cultura della legalità è pure
pressoché inesistente come attestano, tra i tanti indicatori, le
dimensioni di massa della corruzione e dell’evasione fiscale e,
soprattutto, lo statuto impunitario garantito a corrotti ed
evasori da una successione di leggi che nel loro sapiente e
progressivo stratificarsi hanno dato vita a un sistema che, come
ha recentemente dichiarato il ministro della Giustizia Paola
Severino, “scoraggia gli investitori premiando i corrotti e chi
non paga, penalizzando le persone oneste”.
Chi conosce la storia italiana sa che corruzione ed evasione
fiscale sono componenti risalenti e stabili della costituzione
materiale del paese, con le quali, il sistema Italia ha imparato
a convivere pagando prezzi altissimi. Analoghe considerazioni
valgono per il male di mafia che, oggi come ieri, nonostante i
successi ottenuti nel contrasto alla mafia militare, continua
purtroppo a restare pressoché intangibile nel suo cuore di
tenebra che si annida all’interno della c.d. borghesia mafiosa,
nucleo duro e stabile di un potente blocco sociale in grado di
aggregare e orientare quote rilevanti di consenso sociale nel
libero gioco democratico.
Siamo tuttavia entrati in una fase storica nuova nella quale le
vecchie strategie di sopravvivenza messe a punto nella Prima
Repubblica, sono divenute impraticabili, sicché il paese, a meno
che non si ponga in essere una brusca inversione di tendenza,
rischia di avviarsi sulla via della grecizzazione, nonostante le
nuove politiche di austerità. Nell’Italia degli anni del boom
economico, i costi globali di corruzione, evasione fiscale e
mafie furono metabolizzati e riassorbiti grazie a un ciclo
economico espansivo talmente elevato da consentire di accumulare
comunque le risorse fiscali necessarie per impiantare lo Stato
sociale e per garantire una redistribuzione dei redditi che
finanziava la capacità di spesa e di consumo delle masse
popolari, contribuendo alla crescita del mercato interno
nazionale.
Dopo la chiusura di quella fortunata parentesi storica, iniziò
una seconda fase, protrattasi sino agli inizi degli anni
Novanta, nella quale per compensare il mancato introito fiscale
dovuto all’evasione, per finanziare gli enormi costi della
corruzione e per continuare a gestire la spesa pubblica come
instrumentum regni, si fece ricorso sempre più massiccio
all’inflazione. Il ricorso alle svalutazioni competitive della
lira consentiva inoltre di rimettere in pari il bilancio del
commercio estero. Si trattava di un’economia in buona misura
drogata che teneva a galla un paese che aveva messo a punto una
ricetta di breve termine per coniugare illegalità di massa ed
economia all’interno di un sistema domestico che poteva
autogestirsi contando su risorse illimitate, grazie alle carte
truccate di cui si è detto. E fu soprattutto a causa di tali
carte truccate che il rapporto tra debito pubblico e prodotto
interno lordo passò da quota 62,4% del 1979 a quota 124,2% nel
1994. Il libero mercato fondato sulla concorrenza garantita dal
rispetto di regole legali era stato progressivamente sostituito,
in molti comparti importanti, da un arcipelago nazionale di
mercati protetti, soggetti a barriere di ingresso, e che si
autoregolavano secondo codici illegali alternativi, finalizzati
a eliminare i costi e i rischi della concorrenza, scaricando
enormi oneri economici sul bilancio statale. La tempesta di
Tangentopoli mise a nudo nel settore dei pubblici appalti, una
delle tante declinazioni di una economia assistita e illegale
che aveva eliminato la selezione meritocratica nel mondo delle
imprese, rendendo superfluo l’investimento in innovazione e
ricerca. Tutto si giocava sul terreno degli accordi collusivi,
chi entrava a farne parte aveva una rendita di posizione
garantita.
Anche l'evasione di massa faceva parte della costituzione
materiale del paese sulla base di un tacito patto collusivo tra
classe politica e imprenditoriale secondo cui si chiudevano
entrambi gli occhi sulle tasse evase sui profitti di impresa che
venivano utilizzati, oltre che per finanziare le tangenti per la
corruzione, anche per compensare l’esborso degli oneri fiscali
sui costi del lavoro subordinato e per garantire il livello
delle retribuzioni. Il sistema Italia così descritto consentiva
anche la coesione Nord-Sud all’insegna di reciproche
convenienze. La spesa pubblica, alimentata pro quota anche con i
prelievi fiscali effettuati al Nord del paese, veniva utilizzata
al Sud per finanziare enormi reti clientelari, garanzia di un
voto di scambio fidelizzato che assicurava il consenso
elettorale ai partiti di maggioranza. Dalla metà degli anni
Novanta siamo entrati in una terza fase storica estremamente
pericolosa perché da una parte la corruzione, l’evasione
fiscale, il management del sottosviluppo e le mafie restano
realtà costanti e anzi ingravescenti, dall’altra sono venute
meno tutte le leve alle quali il sistema Italia aveva affidato
la sua strategia di sopravvivenza per coniugare illegalità di
massa ed economia.
Il punto di svolta si è verificato a seguito dell’adesione
dell’Italia al Trattato di Maastricht che ha posto fine alle
svalutazioni competitive e, imponendo rigorosi vincoli ai
bilanci statali dei paesi aderenti, ha impedito di finanziare la
continua lievitazione della spesa pubblica tramite il ricorso
all’inflazione. Come si fa allora a sostenere gli enormi costi
macroeconomici generati dal male italiano? Come finanziare un
debito pubblico che nel 2011 ha toccato l’ennesimo record
arrivando a quota 1890,60 miliardi di euro? Dove reperire i
fondi necessari per compensare il mancato introito annuo di 120
miliardi evasione fiscale? I capitali italiani illecitamente
esportati all’estero e sui quali i proprietari non hanno pagato
un centesimo al fisco si aggirano tra i 500 e i 700 miliardi.
Nelle casse dello Stato sono venuti a mancare 230 miliardi di
introiti fiscali, tutta liquidità immediata che se correttamente
investita per sostenere lo Stato sociale e per rilanciare la
politica industriale, ci avrebbe consentito di restare alla pari
della Germania, paese che non essendo zavorrato dagli enormi
costi macroeconomici dell’illegalità di massa, ha brillantemente
superato la crisi internazionale garantendo la piena occupazione
e salari per il lavoro dipendente doppi rispetto a quelli
italiani. E dove trovare i fondi necessari per compensare i
costi macroeconomici di 60 miliardi di euro della corruzione, in
gran parte impunibile grazie alla legalizzazione del conflitto
di interessi, cioè dell’interesse privato in atti di ufficio, e
alla costruzione di un vero e proprio scudo impunitario per il
vastissimo universo sociale che vive dell’indotto della
corruzione? Una corruzione che condanna al rachitismo il mercato
interno e il tessuto imprenditoriale nazionale perché premia e
rende vincente la parte più spregiudicata del mondo
imprenditoriale: quella che sbaraglia la concorrenza e abolisce
la selezione meritocratica utilizzando le carte truccate delle
relazioni collusive con il mondo politico e amministrativo, per
ottenere commesse pubbliche, finanziamenti, erogazioni del
credito, le licenze necessarie per avviare e gestire l’attività.
Così come negli anni Ottanta e Novanta, la corruzione resta la
madre della creazione di mercati protetti, della costruzione di
oligopoli, della ibridazione tra colletti bianchi del mondo
politico-imprenditoriale e quelli della mafia.
Non essendo possibile intervenire per debellare la corruzione,
divenuto purtroppo un rimosso e spinoso affare di famiglia
trasversale alle classi dirigenti nazionali, non essendo altresì
possibile intervenire incisivamente sull’evasione fiscale e su
altre illegalità di massa, perché ritenuto penalizzante sotto il
profilo del ritorno elettorale, si è così scelta una terza via:
invece di tagliare i costi dell’illegalità, si sono tagliati i
costi dello Stato sociale e gli investimenti destinati a
innovare e rendere competitivo il sistema imprenditoriale del
paese. Tagli alla scuola pubblica, ai fondi per la ricerca, ai
servizi degli enti locali, alla sanità, riduzioni e congelamenti
di stipendi eccetera.
Strategia perdente che rischia di strangolare il paese con la
corda dei suoi vizi storici, avviandolo sulla strada di una
occulta grecizzazione. Il taglio lineare delle provvidenze dello
Stato sociale, al netto della razionalizzazione delle risorse e
della eliminazione degli sprechi, ha determinato, infatti, come
immediato contraccolpo, l’impoverimento del ceto medio e delle
masse popolari la cui capacità di spesa e di consumo è stata
sempre più compressa dalla triplice tenaglia della riduzione
delle retribuzioni (le più basse in Europa), dell’incremento del
carico fiscale diretto e da quello indiretto (Iva, tasse sulla
benzina e sull’energia), e infine, della necessità di pagare
servizi prima gratuiti o garantiti a prezzo politico dallo Stato
sociale (dagli asili nido, all’assistenza agli anziani,
dall’aumento del ticket sanitario ai costi dei trasporti
pubblici e via elencando). La riduzione coatta dei consumi di
massa determina la conseguente riduzione degli ordinativi e il
calo della produzione. Producendo meno le imprese versano minori
imposte allo Stato, innescando così un avvitamento recessivo
sempre più pericoloso.
L’impossibilità, per i motivi che si è detto, di porre fine allo
statuto impunitario di cui gode il vastissimo popolo che vive
dell’indotto della corruzione e del management del
sottosviluppo, vota all’insuccesso anche quel residuo di
politica keynesiana che mira al rilancio dell’economia mediante
nuovi investimenti nelle opere pubbliche e nel sostegno allo
sviluppo delle imprese, anche grazie all’utilizzo dei fondi
comunitari. Come la lezione dell’esperienza, insegna, immettere
soldi pubblici in canali istituzionali infestati da enormi
ragnatele corruttive e clientelari, equivale infatti a pompare
acqua in un sistema idrico le cui condutture sono fuori
controllo e lungo il cui percorso è costante il pericolo di
emungimenti e allacci abusivi, sicché alla fine del percorso
l’acqua che arriva a destinazione è troppo scarsa per irrigare i
campi, per dissetare la popolazione e, talora, è pure infetta.
Esiste dunque in Italia una inscindibile correlazione tra
questione economica e questione dell’illegalità che consente di
replicare per il nostro paese la stessa diagnosi che nel 2010
Alexis Papahelas formulò per la Grecia. Non per problemi etici,
né per problemi di giustizia, ma per evitare che la sindrome
greca continui a pregiudicare e forse a compromettere
definitivamente la ripresa economica del paese, precipitandolo
in una spirale di declino irreversibile, la vera sfida con la
quale deve misurarsi oggi il governo Monti, e con la quale dovrà
misurarsi domani chiunque avrà la guida del paese, si muove
dunque sul terreno ineludibile del ripristino della legalità e
del principio di responsabilità, coniugando legalità e sviluppo,
Stato regolatore e libero mercato.
*Procuratore generale presso la Corte di Appello di
Caltanissetta, da il Fatto quotidiano, 15 marzo 2012