Abolire la miseria
di Barbara Spinelli*
Certe volte dimentichiamo che il pensiero di unirsi in una
Federazione, nato come progetto non utopico ma concreto nell'ultima
guerra in Europa, non ha come obiettivo la semplice tregua d'armi
fra Stati che per secoli si sono combattuti seminando morte. È un
progetto che va alle radici di quei nostri delitti collettivi che
sono stati i totalitarismi, le guerre. Che scruta le ragioni per cui
gli individui possono immiserirsi al punto di disperare, anelare a
uno strabiliante Redentore terreno, immaginare la salvezza
schiacciando i propri simili: i deboli, in genere. Dicono che i
motivi che spinsero gli europei a unirsi, negli anni '50, sono
svaniti perché il compito è assolto: la guerra è oggi tra loro
impensabile. Questo spiegherebbe come mai non esistono più statisti
eroici come Monnet, De Gasperi, Adenauer: uomini marchiati dalla
guerra di trent'anni della prima metà del '900.
Chi parla in questo modo trascura quello sguardo scrutante che i
fondatori gettarono sulla questione della miseria, e l'estrema sua
attualità. Trascura, anche, quel che l'Europa unita ha tentato di
fare, per creare non solo istituzioni politiche ma sociali,
economiche. Dai delitti del '900 siamo usciti, nel '46, con un patto
di mutua assistenza fra cittadini.
È detto Welfare perché prese forma in Inghilterra grazie al piano
concepito durante la guerra, su mandato del governo, da William
Beveridge, uno dei fondatori della Federal Union: lo Stato del
Benessere (meglio sarebbe dire Bene-Vivere: il bene dell'Essere è
cosa più scabrosa) dà sicurezza non aleatoria all'indigente,
l'escluso, l'anziano, il paria. Per questo è una grave svista
pensare che l'Europa abbia concluso la missione, e stia lì solo come
arcigna guardiana dei conti in ordine. Esattamente come nel
dopoguerra, sono richiesti Fondatori, Inventori: se la crisi odierna
è una sorta di guerra, è urgente immaginare istituzioni durature
perché i mali che stanno tornando (miseria, diseguaglianza) non
trascinino ancora una volta le società in strapiombi di
disperazione, risentimento, e quell'odio dell'altro che si disseta
bramando capri espiatori (ieri gli ebrei, oggi gli immigrati e in
prospettiva anche i vecchi che "muoiono così tardi").
Abolire la miseria: così s'intitolava lo splendido libro che
l'economista Ernesto Rossi, autore con Altiero Spinelli e Eugenio
Colorni del Manifesto di Ventotene, scrisse in carcere nel '42 e
pubblicò nel '46: "Bisogna unire tutte le nostre forze per
combattere la miseria per le stesse ragioni per le quali è stato
necessario in passato combattere il vaiolo e la peste: perché non ne
resti infetto tutto il corpo sociale". La sfida oggi è identica, e
sono le pubbliche istituzioni nazionali e europee a doversi assumere
il compito. Affidarlo a chiese o filantropi vuol dire regredire a
tempi in cui solo la carità era il soccorso. In molti paesi arabi
sono gli estremismi musulmani a occuparsi del Welfare,
confessionalizzandolo. Non è davvero il modello da imitare: gli
Stati europei si sono sostituiti alle chiese fin dal '200, creando
istituzioni laiche aperte a tutti. Anche l'Europa unitaria investe
su organismi comuni perché - sono parole di Jean Monnet - "gli
uomini sono necessari al cambiamento, ma le istituzioni servono a
farlo vivere". E aggiunge, citando il filosofo svizzero Amiel:
"L'esperienza d'ogni uomo ricomincia sempre; solo le istituzioni
diventano più sagge: accumulano l'esperienza collettiva e da
quest'esperienza e saggezza, gli uomini sottomessi alle stesse
regole vedranno cambiare non già la loro natura, ma trasformarsi
gradualmente il loro comportamento". È laico anche questo: voler
cambiare i comportamenti, non la natura dell'uomo.
È importante ricordare come nacque il Welfare, perché in Europa,
Italia compresa, le campagne elettorali si svolgeranno su questi
temi, e sul banco degli imputati ci sarà spesso la medicina stessa
che dopo il '45 ci somministrammo sia per abolire le guerre, sia per
abolire la miseria. Non è improbabile, ad esempio, che le destre
italiane - non ancora emendate - tramutino l'Europa in bersaglio: da
essa verrebbero quelle regole che ci impoveriscono e
commissariandoci, ci umiliano. L'attacco al governo Monti, quando
s'inasprirà, sfocerà in attacco all'Unione. È già chiaro negli
slogan leghisti. Lo è nell'offensiva di Berlusconi contro le tasse:
cioè contro il tributo che ciascuno (specie i ricchi) deve versare
per preservare la pubblica salute.
Rifondare oggi l'Europa concentrandosi sulla lotta alla miseria
significa capire perché l'Unione ci chiede certi comportamenti, e al
tempo stesso inventare istituzioni aggiuntive che diano sicurezza
all'esercito, in aumento, di disoccupati e precari. Significa
comprendere che la battaglia al debito pubblico non è una mania né
una mannaia: è il patto generazionale che l'Unione ci chiede di
stringere, visto che gli Stati da soli non l'hanno fatto per timore
delle urne. Il Trattato di Maastricht impone di non caricare le
generazioni future di debiti contratti dalla presente generazione
per procurarsi dei beni senza pagare le relative imposte, scrive
Alfonso Iozzo, economista e federalista europeo, in un saggio sulla
re-invenzione del Welfare ("Il Federalista", 1/2010).
Val la pena leggerlo, questo saggio, che poggia sulle solide basi di
studi fatti da James Meade, Nobel dell'economia, sui modi di
garantire redditi minimi di cittadinanza all'intera società. Il
presupposto è estinguere il debito degli Stati, e trasformarlo in
credito pubblico: in un patrimonio che lo Stato preveggente tiene
per sé, dedicandolo non alle spese correnti ma al finanziamento del
Welfare, questo bene non solo sminuito ma spesso inviso. Iozzo è
convinto, come il liberal Meade, che la ricchezza delle nazioni o
dell'Europa (il Pil) vada calcolata con nuovi metodi (Meade chiamava
il suo Stato Agathopia, il Buon posto in cui vivere). Il criterio
non è più la differenza fra quel che costano i beni prodotti e il
reddito ricavato. È il patrimonio di cui dispone lo Stato, è la sua
gestione: l'obiettivo è sapere se alle generazioni future verrà
lasciato un capitale maggiore o minore di quello che noi abbiamo
ricevuto dalle generazioni precedenti. Le leggi di Maastricht
applicano tale metodo, prescrivendo come primo passo l'estinzione
del debito pubblico.
Resta da compiere il secondo passo: la trasformazione del debito in
un credito che protegga i cittadini in tempi di crisi. Non tutti
hanno come patrimonio il petrolio norvegese, ma Oslo è un modello e
ogni Stato ha l'acqua, l'aria, possibilmente nuove forme di energia:
altrettanti beni pubblici consumati dall'individuo. Poiché petrolio
e gas prima o poi finiranno, la Norvegia ha istituito con i ricavi
energetici un Fondo pensione sottratto all'azzardo dei mercati. Solo
il 4% del Fondo può essere annualmente usato per la spesa pubblica,
lasciando ai cittadini un capitale a disposizione per il futuro,
quando il patrimonio sarà esaurito (ogni norvegese è proprietario
virtuale attraverso il Fondo di circa 100.000 euro, contro una quota
del debito pubblico a carico di ogni italiano di 30.000 euro).
Avendo combattuto i debiti pubblici, l'Europa potrebbe escogitare
iniziative simili, inducendo gli Stati a garantire nuova sicurezza
sociale. Non solo; potrebbe far capire che nei costi vanno ormai
incluse l'acqua sperperata, l'aria inquinata: beni non rinnovabili
come il petrolio norvegese. Si parla molto di far ripartire la
crescita. Ma essa non potrà esser quella di ieri, e questa verità va
detta: perché i paesi industrializzati non correranno come Asia o
Sudamerica; e perché la nostra crescita sarà d'avanguardia solo se
ecologicamente sostenibile. Di qui l'importanza delle prossime
elezioni: non solo quelle nazionali, ma quelle del Parlamento
europeo nel 2014. Chi griderà contro le tasse e contro l'Europa
troppo patrigna e severa promette un paese dei balocchi, dove è
sempre domenica e sempre truffa. Meglio saperlo prima, che troppo
tardi. Meglio ricominciare l'eroismo, di cui non cessa il bisogno.
* la Repubblica, 28 dicembre 2011