Tra logica del pogrom e mito della verginità
di Michela Murgia*
La
notizia dello stupro di una sedicenne italiana ad opera di due
rom sabato sera è bastata per trasformare il quartiere torinese
delle Vallette nel set infuocato di "Mississippi Burning". Solo
dopo la ragazzina, terrorizzata dalla portata della reazione del
quartiere, ha ammesso che non c´era nessun rom e nessuno stupro.
Le cronache riferiscono che era stata invece con un ragazzo
italiano, che era la sua prima volta e che era atterrita dalla
possibile reazione dei familiari alla perdita della verginità.
La notizia grossa è quella del pogrom verso la comunità rom,
ennesimo frutto di una cultura dove si cresce imparando a temere
il diverso e lo straniero a prescindere dal fatto che sia
colpevole di qualcosa. Immagino che si troverà senza difficoltà
qualcuno pronto a dire che, se non era vero stavolta, lo sarebbe
stato comunque la prossima. Il fatto che questa cultura negli
ultimi vent´anni abbia trovato sponda politica e sia riuscita a
generare sindaci, assessori, presidenti di provincia e di
regione, europarlamentari e persino ministri ha aiutato molto a
farla passare dal bancone del bar al sentire comune.
È anche grazie a questo se oggi in Italia c´è chi ha smesso di
vergognarsi di essere razzista. La notizia che invece appare
come secondaria è che una ragazzina di sedici anni ha creduto
che fosse meno pericoloso e grave per lei dire che era stata
violentata da due "stranieri" piuttosto che ammettere di aver
fatto l´amore volontariamente con un ragazzo del posto. Non
voglio pensare che una ragazza dica una calunnia simile per
gioco. È assai più credibile che lo abbia fatto perché avvertiva
che se avesse detto la verità, cioè se avesse dichiarato di aver
fatto l´amore perché voleva farlo, sarebbe stata percepita e
trattata come "colpevole" di qualcosa e sarebbe andata incontro
a qualche tipo di sanzione, sociale o familiare, morale o
fisica.
Qualche articolo ieri riportava l´abitudine della famiglia a
farla periodicamente controllare da un ginecologo per
verificarne l´illibatezza, un uso tribale che, se confermato,
direbbe molte cose sul clima in cui la ragazzina deve aver
concepito la sua irresponsabile e protettiva bugia. Ma è
marginale. Resta comunque l´immagine di una ragazzina che
nell´Italia del 2011 fatica di più ad ammettere di essere stata
consenziente che a farsi passare per vittima di stupro indicando
il primo colpevole credibile, magari quello la cui etnia è già
in sé una sentenza: rom.
Quella ragazza non poteva prevedere che molti nel quartiere
avrebbero strumentalizzato la sua falsa condizione di vittima
come innesco della loro rabbia e dell´antica voglia razzista di
dar fuoco ai campi rom di ogni latitudine. L´incendio
dell´accampamento non è in nessun modo colpa sua. Ma è accaduto
e i vigili del fuoco si sono trovati davanti non solo le fiamme,
ma anche una folla decisa a impedire che l´incendio venisse
spento prima di aver bruciato tutto.
Qualcuno, solidale con chi ha appiccato il fuoco a prescindere
dalle responsabilità nello stupro, mi ha scritto su Facebook che
era ora, che gli abitanti del quartiere sono spaventati e che se
anche adesso non gli è passata la paura di uscire di casa in
mezzo a tutti quegli zingari, almeno la rabbia si è sfogata.
Davanti alla cenere e alle bugie ora si parlerà di razzismo, ed
è sacrosanto che avvenga. Ci si chiederà pure cosa sta
succedendo nella civile e solidale Torino, ed è giusto che ce lo
si chieda. Ma spero che qualcuno si faccia domande anche su
quale tipo di italianissima cultura è quella che induce una
giovane donna a credere che la condizione di stuprata sia per
lei socialmente più vivibile di quella di chi fa l´amore perché
lo ha scelto.
*la Repubblica, 12 dicembre 2011