Come uscire dal regime?
Una risposta alle polemiche
di Alberto Asor Rosa*
Grazie, Presidente! Grazie, Silvio! Confesso di aver vacillato per un
istante sotto la mole delle proteste, contestazioni, indignazioni,
distinguo, recriminazioni, persino pianti e lacrime, e ingiurie,
calunnie, prese in giro, dileggi e persino sputi in faccia suscitati dal
mio articolo sul manifesto del 13 aprile. Per fortuna (attenzione,
questa è una battuta), qualche giorno fa, sabato 16 aprile, ho potuto
ascoltare il discorso pronunciato dal Presidente del Consiglio
all'incontro con quest'altra bella invenzione politico-organizzativa,
che è il movimento «Al servizio degli Italiani», e mi sono facilmente
persuaso che le cose non stanno affatto come le avevo descritte e
interpretate in quell'articolo: stanno molto peggio.
Cosa c'è infatti di nuovo in tale discorso anche rispetto al nostro più
recente passato? C'è che Berlusconi ha sentito il bisogno, proprio in
questo momento (sottolineo: proprio in questo momento), di pronunziare
un'allocuzione così estesa e impegnativa, anche se condita
inevitabilmente di qualche inaudita volgarità (del resto, more solito).
Egli, evidentemente, nutre oggi la piena sicurezza di poterlo fare, e ci
ha tenuto, more solito, a darlo a vedere. Ha parlato, cioè, da
vincitore, o che si crede tale (per lui spesso sono la stessa cosa, e
questo, inverosimilmente ma incontestabilmente, aumenta sempre la sua
potenza di fuoco).
Ne è scaturito un vero e proprio, impegnativo, denso e suggestivo,
programma di lavoro, che torna orgogliosamente alle origini,
ricostruisce, come forse finora non era mai accaduto con tanta
chiarezza, una propria genealogia politica (dal pentapartito
anticomunista pre-'89 a Bettino Craxi, non a caso tutti liquidati a loro
tempo dalla protervia eversiva di magistrati di sinistra, anticipatori
di quelli che oggi perseguitano lui), si spinge con grande sicumera fino
alla fine della legislatura, si propone di riempire i prossimi due anni
di tutti gli strumenti atti a vincere di nuovo le elezioni, va ancora
oltre, disegna a tutto tondo un ritratto dell'Italia da ricostruire.
Nella sostanza questo discorso, questo programma di lavoro si può
legittimamente considerare come il vero, autentico Manifesto di una
visione pre e para-dittatoriale dell'agire politico in Italia.
Suggerirei, a chi ne ha i mezzi tecnici, di rivedere il filmato al
rallentatore, isolando, e tornando più volte a rivedere, i momenti
culminanti di tale discorso, che andrebbero uno per uno ritrasmessi e
illustrati per la chiarezza interpretativa di ascoltatori ed elettori.
Come in tutte le progettazioni politiche che si rispettino, la
costruzione del nuovo è preceduta dalla decostruzione del vecchio: e qui
la decostruzione è totale. Il forsennato odio per qualsiasi forma di
«giudizio» (l'Unto del Signore non può essere giudicato) mette al centro
del programma l'annichilimento della macchina giudiziaria italiana,
l'avvilimento subalterno, quasi servile, dei pm, la separazione e
insieme lo smembramento delle funzioni, la persecuzione, minacciata e
gridata, dei giudici e dei pm che fanno il loro lavoro, la subalternità
della magistratura al potere politico.
Ma poi tutto il resto è coerente con questo disegno di decostruzione
totale. Pensate al virulento attacco alla scuola pubblica. Perché costui
ce l'ha tanto con i «professori», nella grandissima maggioranza dei casi
onesti funzionari dello Stato, che fanno un lavoro di enorme
responsabilità, sottopagati e sottostimati? Ma perché - come io vado
sostenendo da tempo, e mi ostino a ripetere in tutte le situazioni - la
scuola pubblica italiana, con tutti i suoi difetti e tutte le sue
povertà, è uno degli architravi portanti dello spirito di unità e
civiltà nazionali, il luogo dove programmaticamente si cerca di formare
coscienze non succubi e non subalterne. Per questo diventa così
esplicitamente il secondo obiettivo da distruggere dopo la magistratura.
L'attacco ai libri di testo fa il resto. E chi potrà impedire che,
secondo una sciagurata consuetudine storica, che pensavamo seppellita
nel nostro più fosco passato, si passi in breve dai libri di testo ai
libri tout court, alle case editrici che li pubblicano, ai loro autori
malfamati e perciò destinati a entrare in un nuovo indice a uso e
consumo dell'Unto?
E poi: l'attacco al meccanismo faticoso e snervante del gioco
parlamentare (se ne farebbe volentieri a meno), la denuncia accorata
dell'impotenza del governo e in modo particolare, ovviamente, del suo
Capo, l'inceppo intollerabile rappresentato dalla Coste costituzionale,
l'eccesso di potere (almeno per ora) nelle mani del Presidente della
Repubblica... Insomma: tutto da cambiare, tutto da riformare, tutto da
decostruire e rendere impotente, affinché tutto sia più soggetto al suo
potere. La prospettiva che ne scaturisce è quella di un cambiamento
radicale di struttura e costituzione formale e materiale dello Stato
democratico e repubblicano, in vista di un accentramento dei poteri
nelle mani del Capo, cui farebbe da pendant illusorio una diffusione
crescente delle libertà individuali nel paese, secondo il principio -
cui il Capo del resto si è esemplarmente ispirato nel corso di tutta la
sua carriera e che anche in questo caso ha eloquentemente perorato - per
cui «è lecito tutto quello che ti fa comodo». Non parliamo in questo
quadro di diritti del lavoro e di obblighi di solidarietà sociale,
tramontati ovviamente insieme con tutto il resto. E non parliamo, ma
solo per ora, delle questioni attinenti all'unità politico-istituzionale
del paese, da decidere più avanti con i complici della Lega.
Facciamo ora un passo, anzi due indietro. La domanda che innanzi tutto
ponevo nel mio precedente articolo era: è vero o non è vero che esiste
in Italia una situazione di rischio mortale per la democrazia ad opera
del progetto politico e, se si vuole, anche della megalomania (ma questa
è l'associazione che sempre si verifica in casi del genere) dell'attuale
Presidente del Consiglio? Questo è il punto, questo è il punto, questo è
il punto. Non mi pare sconsiderato affermare che l'ultima uscita sua -
quella di cui abbiamo testé parlato - formalizzi e per così dire
istituzionalizzi i presupposti di tale analisi e di tale previsione.
Certo i fattori della crisi sono anche altri: per esempio, la debolezza
della prospettiva politica e della coesione ideale delle forze di
centrosinistra, come mi rammenta Pierluigi Battista sul Corriere della
sera. Ma se questo è vero, non è vero e anche più decisivo l'altro
fattore - l'attacco alla divisione dei poteri, al sistema delle
garanzie, all'indipendenza dell'ordine giudiziario e al «pubblico» in
tutte le sue forme - di cui invece non si parla o si parla troppo poco e
quasi di sfuggita?
Se anche questo è vero - e questo, sì, questo io penso che sia
assolutamente vero - ne scaturiva la seconda domanda: come si affronta,
e si supera, una crisi verticale della democrazia che avanza a colpi di
infrangibili e inattaccabili, sorde e mute, maggioranze parlamentari? È
qui che la mia proposta di istituire a partire dall'alto uno «stato di
eccezione» volto a garantire il ritorno alla «normalità» democratica,
contro l'attuale fase di degenerazione estrema del sistema, ha suscitato
proteste e dissensi anche in campo amico. Sono corse castronerie
bipartisan d'ogni tipo - dal golpe militare alla «dittatura
democratica», e altro - mentre non era impossibile capire (lo hanno
fatto con grande chiarezza Paolo Flores d'Arcais e Furio Colombo sul
Fatto quotidiano e Piero Bevilacqua sul manifesto), che forzare
intenzionalmente la natura della soluzione avrebbe significato
costringere tutti ad uscire allo scoperto - come è accaduto, e come
forse con una più piana e perbenistica dimostrazione non sarebbe
accaduto.
Comunque, accantono la proposta ma rinnovo la domanda: come si affronta,
prima che sia troppo tardi, l'inedita questione, per cui il precipitare
di una democrazia verso un'(altrettanto inedita) forma di governo
populistico-autoritario, avviene a colpi di maggioranza parlamentare? Ci
si può accontentare del residuo, sempre più disperato gioco delle parti
all'interno delle Camere? È possibile invece prevedere una consultazione
preventiva e non necessariamente pre-elettorale di tutte le forze di
opposizione - tutte le forze di opposizione - per una denuncia clamorosa
di quanto sta accadendo? Si può tornare a ragionare distesamente delle
prerogative in materia del Capo dello Stato (io, ad esempio, nella mia
ignoranza giuridica, non penso affatto che l'art. 89 della Costituzione
ponga delle condizioni ostative nei confronti dell'applicazione
dell'art. 88, ma naturalmente bisognerebbe discutere)? Non sarebbe
auspicabile una dichiarazione solenne da parte di chi può che
l'indipendenza della magistratura e il sistema delle garanzie (Csm,
Corte Costituzionale) non si toccano - anzi, non si possono toccare? E,
infine, per tornare al linguaggio duro, non sarebbe meglio prevedere e
favorire - e perciò ben governare - una crisi istituzionale invece di
aspettare passivamente tutte le conseguenze negative striscianti?
Insomma, scegliete voi, purché scegliate, e scegliate presto, perché non
c'è più tempo.
Tutto ciò, probabilmente, non avrebbe l'urgenza che io sento e vedo, se
nel frattempo, come sempre è accaduto in tutte le consimili situazioni
del passato, non si fosse scatenato l'esercito dei cani da guardia del
sistema, cui è demandato per professione il compito di far piazza pulita
delle menti libere e dello spirito critico - spirito critico sempre
commendevole anche quando sbaglia. La caccia è aperta. A chi? Ma
all'untore, ovviamente, mentre nel frattempo da tutti i pori del sistema
spira indisturbata la pestilenza. Non è anche questo un argomento degno
d'esser trattato nel quadro dell'attuale degenerazione del costume
etico-politico italiano? Giro la domanda ai politici perbene e a quei
commentatori che non hanno rinunciato a vedere al di là del proprio naso
e della propria (non in tutti i casi egualmente stimabile) buona
educazione.
* il manifesto, 19 aprile 2011
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