Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno"

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Se la fede diventa presunzione di superiorità morale
di Michele Turrisi


La realtà dei fatti ci dimostra abbastanza chiaramente che fede in Dio e moralità non sempre coincidono. Le due cose purtroppo non vanno necessariamente di pari passo. Sappiamo benissimo che non basta essere credenti per essere persone migliori, spiritualmente e moralmente. Magari fosse così! Staremmo certo tutti meglio, vista l’altissima percentuale di credenti nel mondo (ben i cinque sesti della popolazione). Eppure, ancora oggi accade che i cosiddetti «senza Dio» vengano da più parti dipinti a tinte scure. Atei e agnostici non possono, per principio, predicare/praticare nulla di veramente buono. Da costoro non può quindi venire alcun apporto positivo per una sana visione etica.
Ci sono certo importanti eccezioni. Per esempio, alla domanda «Il cristianesimo di speciale cosa può offrire?» il noto teologo cattolico dissidente Hans Küng ha risposto così: «Molto. Naturalmente va capito che anche nelle altre religioni si trovano tanti valori e che una visione etica e spirituale si nutre anche dell’apporto che viene dagli agnostici, dagli scettici, dagli atei. Insomma, il cristianesimo non può pretendere di cambiare da solo il mondo...» (da un’intervista di Marco Politi – la Repubblica, 10 marzo 2005). Per Sergio Quinzio – filosofo della rivelazione, eminente esegeta della tradizione giudaico-cristiana, portatore di una fede (nel Dio biblico) tanto salda quanto inquieta, tra la Croce e il Nulla, in virtù della quale però ha potuto parlare con e ai non credenti – si può anzi dire che «il credente ha bisogno dell’incredulo, in assenza del quale, com’è troppe volte accaduto, la sua fede si trasforma in tranquillo e non di rado ottuso sistema di certezze. “La fede che non si espone costantemente alle possibilità dell’incredulità”, ha scritto Heidegger, “non è neppure una fede”. Se è vero, oggi di fede ce n’è ben poca. L’opportunità di confrontarsi con i non credenti non mancherebbe infatti a nessuno, ma la fede cristiana continua a presentarsi soprattutto come lo schieramento di coloro che hanno una risposta pronta per ogni domanda, tanto che le domande gli appaiono superate e del tutto inutili, anzi senz’altro colpevoli» (S. Quinzio, La speranza nell’apocalisse, Paoline, Roma 1984, p. 148).
Ebbene, negli ultimi tempi mi sono chiesto fino a che punto si possa fondatamente sostenere, da parte dei credenti, che l’etica dei non credenti sia inevitabilmente a rischio, oltre che di «qualità inferiore». Ciò che propongo qui è una libera riflessione su di un episodio biblico (l’incontro del patriarca Abramo con altre culture), una riflessione che interpella Voltaire e attinge pure ad una tanto splendida quanto clamorosa testimonianza di Albert Schweitzer. Direi che la tesi di fondo è scontata. Come giustamente è stato osservato: «Noi siamo cresciuti in una società che ha come modello morale il Vangelo con i valori del Discorso della montagna: beati i poveri di spirito, i miti, coloro che piangono, coloro che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, i pacifici, i perseguitati a causa della giustizia. A cui vanno aggiunti i comandamenti: ama il prossimo tuo come te stesso, ama il tuo nemico. (...) Nell'Europa cristiana non c'è stata gente migliore che in altre civiltà» (così Francesco Alberoni sul Corriere della Sera del 19 settembre 2005). Da appassionato investigatore delle Scritture mi premeva tuttavia fondare quella tesi da un punto di vista particolare: dall’interno del Testo Sacro. Ci sono riuscito? Ai gentili lettori la facile sentenza! [...]
Ancora oggi viene di continuo e da più parti ribadita la terrificante sentenza: una società senza (il nostro) Dio si autodistrugge, inesorabilmente! Per molti ne consegue che bisogna diffidare dei non credenti e contrastare le scellerate istanze laiche. Per il bene di tutti – si capisce. Una cosa però è tragicamente vera: né l’amore per Dio né la credenza nell’inferno eterno hanno mai impedito (storicamente e ancora) a coloro che li professano entrambi di concepire e compiere i delitti più esecrabili. Eppure si ripropone la tesi che solo chi crede in Dio rispetta la vita (ma cosa non è stato fatto e non si fa proprio in nome di Dio!); e alla domanda «In cosa crede chi non crede?» tanti credenti continuano a rispondere con sfacciata sicumera: «Ma in nulla! Se Dio non esiste, allora tutto è possibile, opinabile, lecito… Non ancorati a Dio, il valore della vita e la dignità umana restano senza fondamento…».
Un uomo e credente d’eccezione come Albert Schweitzer ha affermato invece: «Se domani giungessi alla conclusione che Dio non esiste, e che non esiste l’immortalità, e che la morale non è che un’invenzione della società (…) ciò non mi turberebbe affatto. L’equilibrio della mia vita interiore e la consapevolezza del mio dovere non ne sarebbero intimamente scossi. Riderei di cuore e direi: Sì, e allora? (…) Questo mi riempie di sereno orgoglio» (Lettere 1901-1913). Di più: «Quando il pensiero si inoltra per la sua strada, deve essere preparato a tutto, anche ad arrivare all’agnosticismo [Nichterkennen]. Ma se anche la nostra volontà d’azione fosse destinata a combattere una lotta senza fine e senza successo con una concezione agnostica del mondo e della vita, questa dolorosa disillusione sarebbe pur sempre preferibile alla rinuncia a pensare. Poiché questa disillusione significa già purificazione [Läuterung]» (Kultur und Ethik). Mi chiedo se verrà mai il tempo in cui i credenti di tutte le specie e latitudini vorranno e sapranno far proprie queste parole. Mi lascia però ben sperare il fatto di vedere riprodotte e apertamente valorizzate su un’autorevole rivista teologica (Protestantesimo, n. 3/2002 – pubblicata dalla Facoltà Valdese di Teologia) queste e altre fondamentali affermazioni di Schweitzer. [...]

Testo completo e relativo dibattito su:
http://www.aifr.it/pagine/notizie/050.html

 


                                                                       Michele Turrisi






 

 

 


 


 

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