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Agorà: un film per la laicità
di Maria Mantello
Il film Agorà di Alejandro Amenàbar presenta per la prima volta sul grande schermo la storia della filosofa alessandrina Ipazia (magistralmente interpretata da Rachel Weisz), che nel 415 venne trucidata da orde di monaci cristiani agli ordini del vescovo Cirillo, poi proclamato santo e dottore della Chiesa.
E basterebbe già questo a disturbare qualcuno. Ma Agorà è ancora più scomodo, perché smantella con la sua ricostruzione di eventi e soggetti storici la diffusa volgata di un primitivo cristianesimo tutto amore e pace, per mostrarne il volto strutturalmente totalitario e aggressivo nella conquista di ogni spazio pubblico e privato.
Siamo nel IV secolo, apertosi con la vittoria di Costantino contro Massenzio nel 312 a Ponte Milvio. La croce di Cristo contro il labaro imperiale. Da allora in poi (unica parentesi Giuliano l’Apostata (361 – 364) nel riaffermare l’autonomia dello Stato e il pluralismo religioso) la pubblica agorà è progressivamente offerta da imperatori sempre più deboli alla teocrazia cattolica. Il cerchio si chiude con l’editto di Tessalonica, emanato da Teodosio nel 380, che ordina ai popoli dell’impero di abbracciare il cristianesimo cattolico e di obbedire al papa e al vescovo di Alessandria: «Vogliamo che tutte le nazioni che governiamo, grazie alla nostra carità, rimangano fedeli a questa religione, che è stata trasmessa da Dio a Pietro apostolo, e che egli ha trasmesso personalmente ai Romani, e che ovviamente (questa religione) è mantenuta dal Papa Damaso e da Pietro, vescovo di Alessandria, persona con la santità apostolica; cioè dobbiamo credere conformemente con l'insegnamento apostolico e del Vangelo nell’unità della natura divina di Padre, Figlio e Spirito Santo, che sono uguali nella maestà e nella Santa Trinità. Ordiniamo che il nome di Cristiani Cattolici avranno coloro i quali non violino le affermazioni di questa legge. Gli altri li consideriamo come persone senza intelletto e ordiniamo di condannarli alla pena dell’infamia come eretici, e alle loro riunioni non attribuiremo il nome di chiesa; costoro devono essere condannati dalla vendetta divina prima, e poi dalle nostre pene, alle quali siamo stati autorizzati dal Giudice Celeste.»
A questo editto seguono i decreti applicativi. E nel giro di un decennio sui trasgressori del nuovo ordine cattolico si abbattono pene sempre più dure: dalla perdita dei diritti civili, all’esproprio dei beni,… fino alla condanna a morte.
E’ quanto accade in Alessandria d’Egitto nel 391. Anno da cui parte la storia di Agorà.
Alessandria è il centro della grande cultura ellenistica, dove il sapere si incrementa nella circolazione del libero pensiero. Dove la biblioteca è l’agorà. Polmone pulsante della vita pubblica. Dove i sacerdoti adorano il cosmo nella dea Serapide con la sua veste bluastra (il cielo) disseminata di pietre preziose (gli astri). Dove i filosofi quel cosmo lo studiano e spiegano. Dove Ipazia, la figlia di Teone, regge la scuola filosofica. Aperta a tutti: schiavi, pagani, cristiani…
Amenàbar ci mostra questa Alessandria ancora nello splendore della sua cultura e nella ricchezza degli scambi commerciali. Ma ci mostra anche la miseria degli esclusi: poveri e schiavi tra cui i cristiani fanno proseliti con le eucaristiche distribuzioni di pane e con la speranza del riscatto in cielo per chi segue il logos divino. Logos - Verità - Legge che ha il volto del vescovo, che la libertà di parola, parrhesia, la vuole tutta per sé. E per questo non può accettare la concorrenza del filosofo. Soprattutto se studia quel cielo, dove il vescovo vede il regno di Dio di cui la terra deve essere specchio. Soprattutto se il filosofo è una donna che quell’ordine scompiglia: in cielo e in terra.
O Cirillo. O Ipazia. Il fideismo pulsionale contro la razionalità della filosofia.
La macchina da presa indaga questo fanatismo fideista e ne mette in scena la furia devastatrice. In nome dell’unico Dio cattolico si uccidono i pagani, si abbattono le loro statue, si bruciano i loro libri.
Splendida e terribile la sequenza dei papiri saccheggiati dai cristiani, che srotolati volteggiano verso l’apertura circolare del tetto, senza però guadagnare la libertà (libro, libertà: stessa radice).
Il mondo si è capovolto e il regista lo sottolinea col fotogramma rovesciato della biblioteca conquistata.
L’unico libro ammesso è la sacra scrittura. L’unico simbolo ammesso è la croce. La parola di Dio è legge dello Stato. I monaci parabolani di Cirillo, i controllori della pubblica morale.
Dopo i pagani l’odio si riversa sugli ebrei, costretti a migliaia all’esilio. Altro cedimento dei delegati imperiali. Altro esproprio della legalità, al cui rispetto invano Ipazia li ha sollecitati.
Ma Cirillo non domina ancora. Ipazia, la filosofa, continua ad avere nonostante tutto autorità culturale e politica. Questa donna, lontana dal modello mariano che lo stesso Cirillo stava contribuendo a costruire, è vittima predestinata.
Il film ce la presenta intenta a insegnare, a dialogare con tutti alla ricerca di una fratellanza umana costruita sul rispetto. Il suo amore è la filosofia e la scienza. Studia il cosmo.
Quei cicli ed epicicli della tradizione tolemaica: gabbie concentriche di cerchi che fasciano la terra non la convincono. Tutto chiuso. Tutto definito. Tutto scritto e prescritto. Ma se al cosmo si guarda con altri occhi, pensa Ipazia, ecco che l’intuizione eliocentrica del filosofo greco Aristarco ritorna: è il sole a star fermo e la terra a ruotare. E questo moto può essere solo ellittico. Keplero nel XVII lo dimostra con le sue leggi. Ipazia lo sostiene ben 12 secoli prima! E con quell’ellisse spezza il cerchio della immaginifica perfezione celeste. Spezza il modulo dell’identico. Fa ruotare quella terra, che la Chiesa vuole ben ferma per edificarvi la sua eterna e immutabile storia sacra.
Bisogna che questa donna anomala taccia. Del resto non diceva questo già l’ideologo del cristianesimo, Paolo di Tarso?
Nel film, i passi della lettera I a Timoteo, che Cirillo legge davanti al prefetto romano, Oreste, sono una sentenza di morte: «La donna impari in silenzio con ogni sottomissione. Poiché non permetto alla donna d’insegnare, né di usare autorità sull’uomo, ma stia in silenzio». Muta obbediente e partoriente, per riscattarsi dal peccato di Eva! Ipazia è allora la strega, come i parabolani le gridano, mentre la portano al supplizio. Le hanno coperto il volto (e sembra un burqa) e davanti all’ara cristiana sormontata dal simbolo Pax, barbaramente la uccidono. Il regista immagina una lapidazione. Quella riservata oggi alle donne “disobbedienti” in tanti paesi musulmani. Ma allora i talebani erano i parabolani e sappiamo dalle testimonianze storiche che la vergine Ipazia fu scorticata e fatta a pezzi con cocci taglienti. Le cavarono anche gli occhi mentre ancora respirava… E infine, i brandelli del suo corpo, mostrati come un trofeo per le strade di Alessandria, furono gettati nel cinerone. Allo spettatore di agorà questo scempio inumano è risparmiato. Viene lasciata alla scritta in sovraimpressione il compito di averne una qualche notizia.
Il film ormai volge al termine.. .
E’ il testo scritto ad essere protagonista perché la lucidità non si perda. Lo spettatore deve sapere dell’ampiezza delle ricerche scientifiche condotte da Ipazia. Ma deve sapere anche che Cirillo, il mandante del suo assassinio, secoli dopo è stato fatto santo e dottore della Chiesa. Non c’è la data. Qualcuno resta incuriosito e magari se la va a trovare. Allora scopre che Cirillo è diventato santo nel 1882, sotto il pontificato di Leone XIII. Il papa che il monumento in piazza Campo de’ Fiori a Giordano Bruno proprio non lo voleva, e che qualche anno dopo con l’enciclica De libertate humana lanciava i suoi anatemi contro la irrazionale libertà di pensiero e d’insegnamento. Altri tempi. Stessa storia: il controllo dell’agorà.
Maria Mantello
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