Pio XII e Giovanni Paolo II
di Maria Mantello
Benedetto XVI ha firmato il 19 dicembre 2009 un decreto con cui dà corso al processo di beatificazione di Giovanni Paolo II e di Pio XII per le loro manifeste “virtù eroiche”.
Un placet che assimila le due cause, utilizzando l’effetto traino di Wojtyla per superare forse le controversie su Pio XII.
Mentre infatti su Wojtyla continua ad aleggiare un deferente omaggio che alimenta il mito di quel “santo subito” propagatosi da una piazza s. Pietro in veglia all’annuncio della sua morte nella tarda sera del 5 aprile 2005, puntuali sono riemerse le critiche sulla figura di papa Pacelli particolarmente per i suoi silenzi sulla shoah.
La beatificazione di Giovanni Paolo II è data per scontata. E’ all’insegna della compulsiva spinta emozionale che si autoalimenta del ‘voce-di-popolo voce-di-dio’. Che è anche la conferma del successo di Wojtyla, causa ed effetto nell’alimentare una religiosità bisognosa di santi e reliquie. Ben 482 i santi e 1338 i beati proclamati durante il suo pontificato. Una religiosità che già lo ha inglobato in vita facendone un predestinato alla santità; legando la sua figura - complici i media- al ‘disvelamento’ del “terzo mistero di Fatima”. Tutti ricorderanno infatti, l’assimilazione della sua persona ferita nell’attentato del 13 maggio del 1981 con l’immagine della narrazione di suor Lucia, l’unica sopravvissuta dei tre pastorelli che nel 1917 sulle colline del Portogallo avrebbero avuto l’apparizione della Madonna in veste di “Bianca Signora”. Il “vescovo vestito di bianco”… “afflitto dal dolore e dalla pena”…a cui “spararono vari colpi di arma da fuoco” non poteva essere proprio lui, Giovanni Paolo II, colpito dalla pistola di Alì Agca?
Ai funerali di Wojtyla quella santità, sottolineata dalla commovente agonia, veniva evocata e sintetizzata nella scansione del ‘santo subito’, e pubblicamente innalzata nella scritta evangelica cara al papa: “Vi ho cercato ed adesso voi siete venuti a me”. Giovanni Paolo II si riferiva a Cristo. I fedeli la riferivano al suo santo Vicario.
Questo clima di magnetismo ipnoide intorno a Wojtyla non è mai scemato. E per questo gli si risparmiano le analisi storiche, che invece si fanno scontare al suo predecessore che si è trovato a fare i conti con un’Europa travolta dalla lucida follia nazifascista prima, e dal configurarsi della guerra fredda poi.
Ecco allora che di Wojtyla nessuno (o quasi) vuole ricordare come in effetti egli fosse stato un papa medievale, non troppo diverso da Pacelli e neppure da Ratzinger. Solo forse più bravo ad utilizzare gli strumenti della modernità mediatica per riaffermare il primato della Chiesa e della sua morale. Soprattutto in materia sessuale. In quel controllo ossessivo soprattutto del corpo delle donne da riportare ad angeli del focolare, prone al fiat procreativo sempre e comunque.
Niente di nuovo per l’ortodossia cattolica! Ma la sfida di Giovanni Paolo II era un burqa dopo l’era dell’autodeterminazione e le conquiste legislative contro cui il papa lanciava gli anatemi del suo Evangelium vitae.
E nell’impiego del baluardo mariano contro la modernità, Wojtyla è davvero in perfetto tandem di ‘virtù eroiche’ con Pio XII, che il processo di emancipazione culturale e politica che nonostante tutto si affacciava nell’Italia contadina del dopoguerra aveva cercato di bloccarlo sul nascere. E per questo nel 1950 proclamava il dogma dell’Assunzione in cielo della Vergine Madre di Cristo (Munifecentissimus Deus), e santificava Maria Goretti, l’eroina della castità che non aveva ceduto fino alla morte.
Ad fulgido esempio della giovinetta Goretti papa Pacelli raccomandava che fosse ispirata l’educazione delle ragazze, che zelanti suorine-maestre conducevano in pellegrinaggio alla sua casa-santuario. Ma di Maria Goretti anche Wojtyla era innamorato. E non a caso ne ha riproposto il culto trovando -amorevole corrispondenza- immediato ascolto nella televisione pubblica che a questa santa prontamente dedicava un suo serial tv.
Nessuno (o quasi) ricorda questo. E neppure ci si ricorda, ad esempio, che la nuova redazione del catechismo cattolico, voluta da papa Wojtyla, definiva l’omosessualità “disordine morale”, “offesa ai valori cristiani”. O ancora che la pena di morte, con buona pace delle marce ad Assisi, non sia mai stata cancellata dal nuovo catechismo di Giovanni Paolo II.
Ed ancora nessuno (o quasi) osa dire che con Wojtyla e col suo prefetto della fede -l’attuale papa Ratzinger- le speranze con cui molti fedeli avevano salutato il concilio Vaticano II, lasciavano il passo. La svolta che in qualche modo Giovanni XXIII, dopo Pacelli imprimeva, veniva interrotta da Wojtyla.
Nessuno (o quasi) osa più dire che Giovanni Paolo II riproponeva, anche se con toni più edulcorati, il primato della fede e la sottomissione della ragione. E stigmatizzava la libertà di pensiero e di ricerca. Contro l’illuminismo e la secolarizzazione che hanno prodotto la laicità degli stati e la civile convivenza democratica. Ovvero quel ‘grande cambiamento’ (meghìste metabolè) di cui già Platone parlava nel Politico, quando affermava che le leggi umane nascevano quando non c’era più spazio per quelle divine.
Ma l’autodeterminazione, la conquista delle libertà civili ed economiche non erano certo ai primi punti del pontificato di Wojtyla, che con l’aiuto del suo prefetto della fede ed oggi successore, tacitava ed emarginava, ad esempio, i movimenti della ‘teologia della liberazione’, stroncando sacerdoti e vescovi che volevano un cristianesimo, non solo attento al regno dei cieli, ma più concretamente protagonista nel riscatto dalla povertà. Tra i prelati perseguitati e messi a tacere, tutti rammenteranno il brasiliano Leonardo Boff, che ridotto due volte “al silenzio ossequioso”, la prima volta ubbidì; ma la seconda, nel 1992, abbandonò l'Ordine Francescano.
Leonardo Boff aveva avuto l’ardire di sostenere che Giovanni Paolo II era stato “un flagello per la fede” perché “aveva tradito la causa dei poveri” che “non si sentivano affatto appoggiati nella loro lotta contro la povertà”. Nessuno (o quasi) vuole ricordare che Wojtyla ha preferito che i preti “compagneros” dell’America Latina fossero sostituiti con cardinali e vescovi a lui fedeli, magari sbocciati dalle fila dell’Opus Dei.
E capita finanche che nel clima mitico del ‘santo-subito’ si anneghi anche quell’immagine del 1987, dove un sorridente Wojtyla compariva alle finestre del palazzo della Moneda accanto al criminale Pinochet.
Ma quest’immagine indelebile non può non ritornare -almeno per induzione analogica- proprio in questo momento in cui la beatificazione di Giovanni Paolo II è posta al braccetto di quella di Pio XII, che lo storico John Cornwell nel suo fortunato libro inchiesta ha definito senza mezzi termini: Il papa di Hitler.
Pacelli aveva appoggiato Mussolini, gli Ustascia croati, Salazar e Francisco Franco. E alla notizia della vittoria di quest’ultimo contro il fronte democratico, in un radiomessaggio agli spagnoli il 16 aprile 1939 dichiarava esultante: “I disegni della Provvidenza, amatissimi figlioli, si sono manifestati ancora una volta sulla Spagna eroica, nazione eletta da Dio a principale strumento di evangelizzazione del Nuovo Mondo e come baluardo inespugnabile della fede cattolica”.
Già, la Spagna delle persecuzioni contro ebrei e moriscos.
La Spagna di Isabella di Castiglia (la cui santità durante il pontificato di Wojtyla è stata riproposta).
La Spagna di Torquemada e del braccio armato della controriforma, Filippo II...
La Spagna dove ancora una volta col clerico-fascismo di Franco si abbatteva la repressione! E Pacelli si complimentava di tutto questo. Come del resto, già con Hitler, a cui appena divenuto papa (1939) scriveva per ricordare con “cara memoria” la collaborazione in qualità di Nunzio Apostolico in Germania per la sottoscrizione del Concordato (20 luglio del 1933), auspicando che questa intesa potesse in “ispirito di pronta collaborazione e vantaggio delle due parti, giungere a un salutare sviluppo”.
Non una parola di condanna per la spietata violenza razzista che regnava in Germania dalla salita al potere di Hitler. Uno “spettacolo poco civile e disgustoso, per il miscuglio di burocrazia e brutalità con cui veniva eseguito”, come era costretto a prendere atto finanche l’ambasciatore italiano a Berlino, Vittorio Cerruti, in una sua relazione del 5 maggio del 1933 indirizzata a Mussolini.
Ben prima che le leggi di Norimberga del 1935 togliessero agli ebrei la piena cittadinanza, tutti sapevano dove si voleva arrivare.
La guerra di Hitler fece toccare con mano al di là di ogni immaginazione la crudeltà e la ferocia di un regime che aveva fatto dell’eliminazione scientifica degli ebrei e dei “diversi” il fondamento della sua strategia politica. Ma mentre di tutto questo Pio XII non parlava, non rinunciava a compiacersi -ad esempio- per il successo del maresciallo Pétain e della repubblica fascista di Vichy, in cui vedeva il “segno del fortunato rinnovamento della vita religiosa in Francia”. Poco importava che grazie pure all’azione collaborazionista di quel governo, più di 76.000 ebrei francesi venissero portati a morire ad Auschwitz.
Nel 1942 anche le ambasciate inglesi ed americane premevano su Pio XII perché condannasse i nazisti. Il suo discorso della Vigilia di Natale era attesissimo, soprattutto da tanti sinceri cristiani.
Ma Pacelli non andò al di là della generica pietà verso persone che “senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o stirpe, sono destinate alla morte o a un progressivo deperimento”. (sic.!).
Pio XII almeno di un fatto fu testimone: la deportazione degli ebrei romani. Egli aveva saputo subito del rastrellamento in quell’alba del 16 ottobre del ’43. Ad avvisarlo era stata la principessa Enza Pignatelli. La conferma gli era venuta dall’ambasciata tedesca. Ma anche in questa occasione tacque.
Sappiamo che fu informato costantemente dai vescovi locali del triste viaggio nei vagoni bestiame blindati, delle grida di disperazione, dei pianti dei bambini..., ma la sua preoccupazione più impellente sembrerebbe stata per l’impatto che la deportazione avrebbe avuto sulla Resistenza romana: sui “comunisti” a cui la assimilava. Quei comunisti contro cui, alle elezioni democratiche del 1948 lanciava la sua potente scomunica.
Si dice che fu la paura del comunismo a farlo tacere. Che tacque per non peggiorare la situazione. Che difese gli ebrei invitando gli istituti religiosi cattolici ad aprir loro le porte. Molti ebrei sicuramente si sottrassero per questa via alla deportazione e alla morte, ma non dimentichiamo che in cambio di questo asilo non mancava chi pretendeva il battesimo. Almeno dei bambini ebrei.
Senz’altro il papa nella sua autonomia può santificare chi vuole. E forse è la strada più semplice per non fare i conti fino in fondo con la shoah e le sue premesse che sono state scritte dalla penna e dalle azioni dell’antisemitismo cristiano. Ecco allora che le pesanti responsabilità si preferisce blindarle negli archivi segreti e nella santità dei pontificati.
Maria Mantello
correlati: