Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno"

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Strasburgo dà ragione al prof. Luigi Lombardi Vallauri

Emilio Carnevali (Adista)

Era il 1998 quando il professor Luigi Lombardi Vallauri fu rimosso, dopo venti anni di insegnamento, dal suo incarico di docente di Filosofia del Diritto presso l’Università Cattolica di Milano per le sue posizioni “nettamente contrarie alla dottrina cattolica” e “per rispetto della verità, del bene degli studenti e di quello dell’università”.

Undici anni dopo quei fatti, la Corte europea per i diritti dell’uomo ha accolto il suo ricorso ed ha condannato l’Italia (e implicitamente l’Università Cattolica) per aver violato la libertà di espressione del professore, che invano si era prima rivolto alla giustizia amministrativa italiana (Tar della Lombardia e Consiglio di Stato). È una sentenza che può avere conseguenze enormi, sulle quali Adista ha voluto discutere con lo stesso Lombardi Vallauri.

 

Qual è stata la sua prima reazione alla sentenza?

La sentenza mi ha dato grande gioia. Nell’orizzonte plumbeo del crepuscolo del diritto in cui ci troviamo provvisoriamente immersi la vedo come un barlume di luce che dà un po’ di speranza.

Erano in gioco due valori molto grandi, cioè la libertà di manifestazione del pensiero, in questo caso pensiero scientifico e filosofico, e i diritti naturali procedurali, che sono quelli al processo equo. Perché le due cose sono state violate? Perché la Santa Sede, nella persona del cardinale Pio Laghi, prefetto della Congregazione per l'Educazione Cattolica, ossia “ministro dell’Istruzione” della Chiesa, ha stabilito che ritirava il nulla osta, il placet, senza motivare analiticamente questa decisione. Al Consiglio di Facoltà è stato comunicato esclusivamente che c’erano netti contrasti con la dottrina cattolica. È una dichiarazione troppo vaga. È come mandare in prigione una persona per “netti contrasti con il codice penale”. Mancavano quindi addebiti precisi.

In secondo luogo è mancato un contraddittorio ed è conseguentemente stato leso il diritto alla difesa. Io sono stato ricevuto da un signore - un certo don Velasio De Paolis - che mi ha detto che non andavo bene e non mi ha nemmeno permesso di prendere appunti. Non c’è stato alcun dibattito pubblico.

 

Emanuele Severino, anche lui processato dalla Cattolica per via delle sue tesi non in linea con la dottrina ufficiale della Chiesa, ha dichiarato, in seguito a questa sentenza, che “se un’università libera decide che sia seguito un determinato indirizzo culturale, chi vi insegna non deve poi avere la pretesa di sceglierne uno diverso”. Come risponde a questo tipo di obiezione?

Innanzitutto l’Università Cattolica del Sacro Cuore, come dice il suo statuto, è un istituto culturale di diritto pubblico e ciò è anche dimostrato dal ricorso ai giudici amministrativi. Tuttavia, anche se si trattasse di un’istituzione privata, come ad esempio un’azienda, occorre sempre la “giusta causa” per fondare il licenziamento o una qualunque interruzione di rapporto. Perciò mi pare che la reazione di Severino sia stata superficiale. Il diritto di dire a qualcuno che non va bene dal punto di vista teorico non può manifestarsi in forme autoritarie e non accompagnate da motivazioni. Tanto più quando si tratta di un’università che è per definizione un luogo dove le idee si affrontano con idee e non con misure amministrative.

Quando è arrivata la decisione della Santa Sede, ed è stata accolta dal Consiglio di Facoltà, io ho detto: ci sono due figure che restano come due mendicanti alla porta dell’Università Cattolica: la Costituzione italiana e l’essenza stessa dell’Università. Aggiungo che i principi del giusto processo - quelli che sono stati violati nel mio caso - e i principi del dibattito intellettuale sono praticamente identici. Nessuno può dire a uno scienziato: non vai bene perché lo dico io. Gli deve provare che non va bene. Ecco perché mi sembra che l’intervento di Severino sia inadeguato.

Inoltre non è vero, al contrario di ciò che lui ha sostenuto, che hanno continuato a pagarmi lo stipendio. Non accetto, infine, che Severino abbia definito il contrasto mio e di Franco Cordero con la Cattolica come “una lite in famiglia”. Quasi che lui fosse un gigante del pensiero e noi dei polli che litigano sull’aia dell’università.

 

Quali sono le conseguenze immediate di questa sentenza, al di là del suo caso specifico?

Dopo la sentenza di Strasburgo non sarà più possibile che un cardinale, un rettore, un preside o chi per loro, anche a livello di scuola media, dica a un insegnante: ti licenzio perché non vai bene, e non vai bene perché lo dico io. Mi pare che sia una conseguenza di enorme importanza.

 

Ci saranno conseguenze anche fuori dall’Europa?

Sì, dal momento che sta diventando sempre più frequente che la Corte Suprema di un Paese faccia riferimento al pronunciamento di un'altra Corte per emettere una sentenza. Per questo motivo la sentenza della Corte di Strasburgo può avere una portata planetaria. In India, ad esempio, c’è un articolo della Costituzione che vieta l’insegnamento di qualsiasi religione nelle scuole pubbliche. Però possono esserci scuole private buddiste, induiste, cattoliche, protestanti, islamiche, confindustriali, insomma, di qualsiasi tipo. Anche lì, se un insegnante venisse licenziato per le sue idee, il precedente della sentenza della Corte europea potrebbe essere ripreso dalla Corte Suprema indiana.

L’Europa, proprio a causa delle sue nefandezze storiche metabolizzate, è diventata un faro dell’umanità. Noi abbiamo il dovere di tenere alta la fiaccola dei diritti fondamentali. La Corte di Strasburgo, che in nome di un’Europa di 47 Stati, dalla Turchia al Portogallo, permette processi di cittadini contro il loro Stato, è il capolavoro giuridico dell’umanità. È l’unica cosa che c’è di questo genere: è la ‘torta in cielo’ del diritto.

Da un punto di vista eminentemente teologico, quali parti della sua riflessione sono state giudicate in contrasto con il magistero ufficiale della Chiesa?

Tutte le mie principali idee di filosofia della religione si trovano nel libro Nera Luce. Saggio su cattolicesimo e apofatismo, pubblicato da Le Lettere di Firenze nel 2001. La cosa forse più importante è la mia critica filosofico-giuridica dell’inferno. Io di professione sono un filosofo del diritto e ritengo che l’inferno, visto alla luce della filosofia della giustizia, sia straordinariamente antigiuridico: c’è sproporzione tra la pena infinita e la colpa finita; c’è trattamento contrario al sentimento di umanità; e, infine, non si tende alla rieducazione del condannato. Quindi l’inferno è anticostituzionale.

Se poi prendiamo la dottrina del peccato originale, quella di s. Agostino, per cui si nasce portatori del peccato originale e un bambino che non ha ricevuto il battesimo va a finire, sia pure in una zona alta, all’inferno, quella è addirittura un “mostro giuridico”. La responsabilità penale è personale, quindi non può essere ereditaria e il bambino non ha nemmeno commesso un atto. Non solo: il peccato verrebbe trasmesso con lo sperma e a partire da un essere non esistito come Adamo… Insomma, la storia del peccato originale e del battesimo dei bambini è un’assurdità giuridica. Secondo me l’inferno è il gigantesco scheletro nell’armadio del cristianesimo. Gesù incluso, purtroppo, perché in Matteo ci sono più di venti passi dove si vede che una buona parte dell’umanità è condannata all’inferno. Su questo è d’accordo anche Pietro Prini, con cui mi sono incontrato a Bruxelles durante un convegno riservato dal Parlamento europeo ai cattolici privati di parola (7-8 dicembre 2004, ndr). Io credo che la Chiesa sia in una posizione di imbarazzo estremo, perché riuscire a giustificare ideologicamente l’inferno o eliminarlo dal Vangelo e dalla dottrina dei papi è impossibile.

 

Queste sue tesi rendono il suo pensiero oggettivamente incompatibile con il corpo magisteriale…

Con il corpo magisteriale in senso stretto, sì. Ma sono riflessioni altrettanto necessarie alla teologia del futuro quanto il recepimento, non so, del modello copernicano al posto di quello tolemaico, o del darwinismo. Non sarà possibile una teologia futura che non prenda sul serio, direi tragicamente sul serio, gli ineludibili passi evangelici e magisteriali sulla pena eterna.

(emilio carnevali, Adista, 114 del 2009)

 


 

             

 


 

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