Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno"

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Il don Carlos di Verdi, simbolo della libertà contro il fanatismo

di Nuccio Ordine

Gracile e forte, indifferente e appassionato, impacciato ed eloquente, inetto e virtuoso, traditore ed eroe: all’interno di questi opposti poli si costruisce, nei secoli, la tragica immagine di Don Carlos (1545-1568), principe delle Asturie, figlio di Filippo II re di Spagna e di Maria di Portogallo. Un destino che sembra essere ben prefigurato nei due ritratti realizzati da Alonso Sánchez Coello, celebre pittore al servizio della famiglia reale. Nella prima rappresentazione a tre quarti di figura (1558 circa), ora conservata al Museo del Prado di Madrid, il giovane Asburgo, nel suo ruolo di erede al trono, viene idealizzato a tal punto da essere presentato come forte, coraggioso, sicuro di sé, in grado di onorare gli attributi del potere (Giove, l’aquila e la colonna) che si intravedono fuori dalla finestra. Nel secondo ritratto (Kunsthistorisches Museum di Vienna), realizzato intorno al 1564, Don Carlos appare invece con i suoi difetti fisici: la raffigurazione in piedi, infatti, non nasconde le asimmetrie somatiche (il volto, le gambe, il petto) che sembrano in perfetta armonia con il tono più dimesso del principe.

Basta rileggere le fonti storiche e letterarie per cercare di capire come sia stato possibile offrire immagini così diverse e lontane dello stesso personaggio. Gli studiosi non hanno dubbi sulla deformità fisica di Don Carlos e sul suo disagio psichico (come non pensare alla bisnonna, Giovanna la pazza). Le testimonianze, a questo proposito, parlano chiaro: «Il principe è magro, pallido, piuttosto piccolo – scrive un ambasciatore austriaco nel 1559 – ha una spalla più alta dell’altra, il petto rientrante, la schiena incurvata con una piccola gobba all’altezza dello stomaco. La gamba sinistra è ben più lunga della destra; le cosce sono forti, ma sproporzionate; le gambe sottili ed esili. La voce è ora flebile ed ora squillante. Egli è assai impacciato quando si mette a parlare e le parole non gli vengono».

Orfano di madre, la regina muore subito dopo il parto, Don Carlos vive la sua infanzia con un padre assente per i suoi numerosi impegni militari e diplomatici. E dall’inizio, il rapporto con Filippo II si configura conflittuale a causa, tra l’altro, degli scarsi risultati nell’apprendimento e dei comportamenti talvolta bizzarri e aggressivi. Indebolito da frequenti attacchi di febbre nel 1560, due anni dopo la sua fragile salute viene definitivamente compromessa da una rovinosa caduta per le scale del palazzo di Alcalá de Henares. Ma al contrario dell’esperienza di Giambattista Vico – un trauma analogo generò in lui il “bernoccolo” filosofico –, il principe, tra la vita e la morte, viene salvato da un delicatissimo intervento di perforazione del cranio effettuato dal celebre Vesalio. Nel 1568, in seguito ad una serie di “incidenti” con diversi cortigiani e con lo stesso padre, Don Carlos viene arrestato su ordine di Filippo II e rinchiuso in un torre, dove si lascia morire pochi mesi dopo.

Ma come è stato possibile costruire il mito di Don Carlos a partire da questi dati biografici? Le misteriose circostanze dell’arresto e della morte finirono per alimentare la campagna dei protestanti contro Filippo II. Già nell’Apologia (1581) di Guglielmo d’Orange il re viene accusato di aver decretato l’assassinio del figlio. Poi spetterà a César Vichard de Saint-Réal, ricordato da Stendhal nel suo Il rosso e il nero, la realizzazione del primo racconto storico (Don Carlos, 1672) in cui la leggenda della crudeltà di Filippo II viene collocata all’interno della storia d’amore tra il giovane principe e la giovane moglie del re di Spagna. In effetti, a seguito della pace di Cateau-Cambrésis, Caterina de’ Medici e Filippo II aspirano a consolidare i legami tra i due regni. E mentre in un primo momento si pensa a un matrimonio tra Don Carlos e Elisabetta di Valois, nel 1559 sarà lo stesso re di Spagna (rimasto vedovo della seconda moglie, Maria I d’Inghilterra) a prendere in sposa la giovane figlia dei reali di Francia. Elisabetta aveva appena compiuto quattordici anni. Eppure la sua amicizia con il coetaneo Don Carlos e la sua improvvisa morte pochi mesi dopo la scomparsa del principe contribuirono a costruire una storia d’amore mai esistita. La gelosia del padre per il figlio, l’infelice passione del figliastro per la matrigna, la violenta repressione dell’Inquisizione, il conflitto tra le ragioni del cuore e la ragione di Stato si rivelarono un fertile terreno per alimentare diverse opere, tra cui le tragedie di Thomas Otway (Don Carlos, 1676), Vittorio Alfieri (Filippo, 1783) e Friedrich Schiller (Don Carlos, 1787).

Tra Settecento e Ottocento, insomma, lo “scontro” di Don Carlos con Filippo II diventa simbolo della lotta per la libertà contro la crudeltà dell’assolutismo dei tiranni e contro lo spietato dogmatismo degli inquisitori. Il cattolicissimo re di Spagna aveva represso nel sangue le rivolte dei protestanti nei Paesi Bassi e ordinato l’omicidio dei suoi oppositori. Don Carlos, incoraggiato probabilmente dal barone di Montigny, aveva domandato al padre di essere più aperto in materia di religione e di alleggerire la pressione fiscale nelle Fiandre. Ma le sue richieste furono considerate un “tradimento”.

Non a caso in Schiller e in Verdi il giovane principe, nel momento in cui si offre per governare i Paesi Bassi, viene visto dal re come un pericoloso eretico regicida. Nel finale dell’opera verdiana però lo stesso Filippo II dovrà cedere al dominio della Chiesa. Di fronte ai dubbi del padre-re («La natura, l’amor tacer potranno in me?»), l’Inquisitore non esita a rispondere: «Tutto tacer dovrà per esaltar la fé». Anche la morte di un figlio diventa necessaria per consolidare il potere della religione («Dunque il trono piegar – dovrà sempre all’altare»). Battute che ancora oggi invitano a riflettere.

(Corriere della Sera, 7 dicembre 2008)

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