di Roberto
Ciccarelli,
Il
Manifesto (21
ottobre
2008)
Un populismo
penale che
promuove il
diritto
minimo per i
ricchi e i
potenti, e
un diritto
repressivo
per i
poveri, i
marginali e
i
«devianti»,
con
l'aggravante
delle leggi
razziste che
colpiscono
migranti
irregolari e
rom. È
severo e
indignato il
filosofo del
diritto
Luigi
Ferrajoli
quando
commenta le
decisioni
prese dal
governo
Berlusconi
sulla
sicurezza
ispirati
alla
«tolleranza
zero». «Per
la prima
volta nella
storia della
Repubblica -
afferma - la
stigmatizzazione
penale non
colpisce
solo singoli
individui
sulla base
dei reati da
essi
compiuti, ma
intere
classi di
persone
sulla base
della loro
identità
etnica».
Un giudizio
che non
sorprende,
quello del
massimo
teorico del
garantismo
penale, che
ha sempre
legato agli
studi di
diritto, di
logica e di
metodologia
della
scienza
giuridica,
una tensione
etica verso
l'effettività
del diritto
sul piano
storico e su
quello
politico.
Già
magistrato
dal 1967 al
1975, anni
in cui
partecipò
alla
fondazione
di
«Magistratura
Democratica»,
Ferrajoli
che oggi
insegna
Filosofia
del diritto
alla terza
università
di Roma, ha
intrapreso
un'opera che
ha
conosciuto
capolavori
come Diritto
e Ragione
del 1989,
per giungere
al libro
della vita,
i tre volumi
di Principia
Iuris,
pubblicati
quest'anno.
L'omicidio
di Giovanna
Reggiani
avvenuto un
anno fa a
Roma sembra
avere
impresso una
«svolta
punitiva»
alla
politica
italiana.
Prima il
«pacchetto
sicurezza»
del Governo
Prodi, poi
le misure
che
sanzionano
pesantemente
la
criminalità
di strada,
l'immigrazione
irregolare e
i rom del
Governo
Berlusconi,
ricorrendo
anche
all'esercito.
Il tutto in
nome
dell'insicurezza
crescente.
Ma quanto è
reale questa
paura?
Si tratta di
una paura in
gran parte
costruita
dal sistema
politica e
dai media.
Secondo le
analisi del
Centro
d'ascolto
del Partito
Radicale, lo
spazio
dedicato dai
telegiornali
alle notizie
di cronaca
nera è
passato dal
10,4% nel
2003 al
23,7% nel
2007, con un
incremento
del 233,4%
nel biennio
2006-2007.
Questi dati
sono
cresciuti in
corrispondenza
della
campagna
elettorale.
La destra ha
cavalcato
senza
ritegno la
politica
della paura
che ritengo
non abbia
alcuna
giustificazione.
Se guardiamo
le
statistiche
storiche,
vediamo che
in Italia il
numero degli
omicidi è
sceso l'anno
scorso a
601,
rispetto ai
5 mila nella
seconda metà
dell'Ottocento.
Le lesioni
volontarie,
le violenze
sessuali,
sono
diminuite di
circa due
terzi. Lo
stesso per i
furti e le
rapine.
Lei
ha definito
questo uso
demagogico
della paura
nei termini
di
«populismo
penale». In
cosa
consiste?
Con
questa
espressione
il giurista
francese
Denis Salas
e quello
domenicano
Eduardo
Jorge Prats
definivano
una
strategia
diretta ad
ottenere
demagogicamente
il consenso
popolare
rispondendo
alla paura
generata
nella
popolazione
dalla
criminalità
di strada.
Si afferma
così un uso
congiunturale
del diritto
penale in
senso
repressivo
ed
antigarantista
che è
totalmente
inefficace
rispetto
alle
intenzioni
di prevenire
i crimini.
Per
quale
ragione?
Prenda, ad
esempio, la
proposta di
introdurre
il reato di
immigrazione
clandestina.
Questo nuovo
reato
assegnerà a
chiunque
entra nel
territorio
nazionale, o
vi si
intrattiene
illegalmente,
la
condizione
di
delinquente.
Questo
significa
che in un
colpo solo
700 mila
immigrati
clandestini
residenti
dovranno
essere
incarcerati.
Senza
contare che
è
impossibile
incarcerare
centinaia di
migliaia di
persone.
Oppure il
reato di
prostituzione
e
adescamento
in strada,
come
proposto dal
ministro
Mara
Carfagna:
decine di
migliaia di
prostitute
dovrebbero
essere
arrestate e
processate
insieme ai
loro
clienti.
Ovviamente è
impensabile
che queste
norme
possano
essere
seriamente
applicate.
Ma proprio
questo ne
conferma il
carattere
demagogico.
Quello che è
importante è
la valenza
simbolica di
questi
annunci, non
la loro
applicabilità.
Queste
misure sono
state
giustificate
in nome
della
«tolleranza
zero»...
«Tolleranza
zero» è
un'espressione
assurda che
esprime
un'utopia
reazionaria.
L'eliminazione
dei delitti,
cioè la loro
riduzione a
zero, è
impossibile
senza
un'involuzione
totalitaria
del sistema
politico. La
«tolleranza
zero»
potrebbe
essere forse
raggiunta
solo in una
società
panottica di
tipo
poliziesco,
che
sopprimesse
preventivamente
le libertà
di tutti,
mettendo un
poliziotto
alle spalle
di ogni
cittadino e
i carri
armati nelle
strade. Il
costo
sarebbe
insomma la
trasformazione
delle nostre
società in
regimi
disciplinari
e illiberali
sottoposti
alla
vigilanza
capillare e
pervasiva
della
polizia.
Ma è sulla
base di
questa
parola
d'ordine che
è avvenuta
negli ultimi
vent'anni la
crescita,
non solo in
Italia,
della
carcerazione
penale. Se è
dunque così
inefficace,
perché la
«tolleranza
zero»
continua ad
essere
applicata?
Il
fenomeno a
cui lei
accenna è di
dimensioni
gigantesche,
in tutti i
paesi
occidentali
si è
prodotta una
vera
esplosione
delle
carceri. In
Italia, la
popolazione
carceraria è
raddoppiata,
arrivando a
50 mila
persone
detenute;
negli Stati
Uniti è
addirittura
decuplicata,
2 milioni di
persone,
senza
contare i 4
milioni
sottoposti
alle misure
della
probation o
della
parole.
Bisogna
anche
ricordare
che in
questo paese
il numero
degli
omicidi ha
raggiunto
quota 30
mila
all'anno,
dieci volte
in più
dell'Italia,
nonostante
le mafie e
le camorre.
Si tratta di
una
carcerazione
di massa
della
povertà,
generata da
una
degenerazione
classista
della
giustizia
penale,
totalmente
scollegata
dai
mutamenti
della
fenomenologia
criminale,
alimentata
da
un'ideologia
dell'esclusione
che
criminalizza
i poveri,
gli
emarginati,
i diversi
come lo
straniero,
l'islamico,
il
clandestino,
all'insegna
di
un'antropologia
razzista
della
disuguaglianza.
Esiste un
rapporto tra
questo uso
della
giustizia
penale e il
cosiddetto
Lodo Alfano
che tutela
le alte
cariche
dello Stato?
È
la
duplicazione
del diritto
penale: un
diritto mite
per i ricchi
e i potenti
e un diritto
massimo per
i poveri e
gli
emarginati.
In questa
duplicazione,
le misure
draconiane
contro la
delinquenza
di strada
convivono
con
l'edificazione
di un intero
corpus iuris
ad personam
finalizzato
a
paralizzare
i vari
processi
contro il
presidente
del
Consiglio,
con
l'annessa
campagna di
denigrazione
dei giudici
accusati di
fare
politica,
anche se
interpretano
il principio
dell'uguaglianza
davanti alla
legge. È la
prova che
oggi la
giustizia è
sostanzialmente
impotente
nei
confronti
della
delinquenza
dei colletti
bianchi,
mentre è
severissima
nei
confronti
della
delinquenza
di strada.
Si pensi
agli aumenti
massicci di
pena per i
recidivi
previsti
dalla legge
Cirielli,
sull'esempio
degli Stati
Uniti,
simultaneamente
alla
riduzione
dei termini
di
prescrizione
per i
delitti
societari,
destinati
così alla
prescrizione.
E si pensi,
invece, alle
pene
durissime
introdotte
dal decreto
sulla
sicurezza:
espulsione
dello
straniero
condannato a
più di due
anni,
reclusione
da 1 a 5
anni per
avere
dichiarato
false
generalità,
aumento
della pena
fino a un
terzo nel
caso in cui
lo straniero
sia
clandestino.
Sta
dicendo che
il diritto
penale viene
ormai usato
come
strumento di
discriminazione?
Tutte queste
misure
violano una
serie di
principi di
civiltà
giuridica,
ma
soprattutto
la sostanza
del
principio di
legalità,
cioè il
divieto in
materia
penale di
associare
una pena ad
una
condizione,
o ad
un'identità
personale,
tanto più se
è etnica. È
il
meccanismo
della
demagogia
populista:
si
costruisce
un
potenziale
nemico,
l'immigrato,
e lo si
addita come
possibile
delinquente,
o soggetto
pericoloso,
esponendolo
alla
violenza
omicida come
abbiamo
visto nelle
ultime
settimane
con
l'assassinio
di Abdoul
Guiebré a
Milano, con
la strage
dei sei
lavoratori
africani a
Castelvolturno,
con gli
incendi dei
campi rom a
Napoli e
molti altri
episodi
purtroppo
giornalieri.
Ma l'aspetto
più grave di
queste
leggi, più
ancora della
violazione
dei principi
garantisti,
è il veleno
razzista che
iniettano
nel senso
comune.
Queste leggi
non si
limitano ad
assecondare
il razzismo
diffuso
nella
società, ma
esse stesse
sono leggi
razziste, a
distanza di
settant'anni
di quelle di
Mussolini,
delle quali
i nostri
governanti
dovrebbero
vergognarsi.
In
che cosa
consisterebbe,
invece,
l'uso
garantista
del diritto
penale?
In
una politica
razionale, e
non
demagogica,
che abbia a
cuore la
prevenzione
dei delitti,
insieme alla
garanzia dei
diritti
fondamentali
di tutti, e
che
consideri la
giustizia
penale come
un'extrema
ratio. La
vera
prevenzione
della
delinquenza
è una
prevenzione
pre-penale,
prima ancora
che penale.
Non
si può dire
che la
sinistra non
abbia ceduto
alle
tentazioni
dell'ideologia
sicuritaria
negli ultimi
anni, penso
alle misure
contro i
lavavetri e
l'accattonaggio
adottate da
alcuni suoi
sindaci. In
che modo è
possibile
impostare
una diversa
politica
della
prevenzione?
Con
lo sviluppo
dell'istruzione
di base, con
la
soddisfazione
dei minimi
vitali, in
altre parole
con la
costruzione
dell'intero
sistema di
garanzie dal
quale
dipende
l'effettività
della
democrazia.
Ma la
prevenzione
passa
soprattutto
dallo
sviluppo del
senso
civico,
della
solidarietà
sociale,
della
tolleranza
per i
diversi,
insomma
dalle virtù
civili e
politiche
che sono
esattamente
opposte alla
paura e al
sospetto di
tutti verso
tutti,
alimentati
dalla
legislazione
emergenziale
sulla
sicurezza.
Sta
dicendo che
le politiche
sociali
dovrebbero
limitare al
massimo il
ricorso alle
politiche
penali?
È
proprio sul
terreno
delle
politiche
sociali che
matura la
convergenza
tra
garantismo
liberale e
garantismo
sociale, tra
garanzie
penali e
processuali
e garanzie
dei diritti
sociali, tra
sicurezza
penale e
sicurezza
sociale. È
l'assenza di
garanzie per
l'occupazione
e per la
sussistenza
a creare ciò
che chiamo
«delinquenza
di
sussistenza».
Queste
politiche
sociali
richiedono
lo sviluppo
effettivo di
garanzie del
lavoro,
dell'istruzione,
della
previdenza,
in generale
politiche
che
assicurino a
ciascuno,
come ha
detto Marx,
lo spazio
sociale per
l'estrinsecazione
della
propria
vita.