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"il
soldato come
questurino,
il giudice
come
chierico, il
giornalista
come
laudatore..."
da L'eccezione
è la regola
di Giuseppe
D'Avanzo
Berlusconi è
intenzionato
a dimostrare
che - per
governare la
crisi
italiana,
come vuole
che noi
l'immaginiamo
- è
costretto
per
necessità a
separare lo
Stato dal
diritto, la
decisione
dalla legge,
l'ordine
giuridico
dalla vita.
Come se il
Paese
attraversasse
una terra di
nessuno.
Così
critica,
oscura e
sinistra da
rendere
urgente e
senza
alternative
un potere di
regolamentazione
così esteso
da
modificare e
abrogare con
decreti le
leggi in
vigore.
Con il
"decreto
sicurezza"
(alla voce
immigrati) e
con il
"decreto
Napoli", è
stato chiaro
che
Berlusconi
intende
muoversi in
uno "stato
di
eccezione".
Ha deciso di
esercitare
il suo
potere
secondo un
tecnica che
gli impone
di creare -
volontariamente
e in modo
artefatto -
una
necessità
dopo
l'altra,
giorno dopo
giorno,
quale che
siano le
priorità più
autentiche e
dolorose del
Paese.
Nonostante
quel che si
può pensare,
infatti, la
necessità
non è una
situazione
oggettiva,
implica
soltanto un
giudizio o
una
valutazione
personale.
In fondo,
sono
straordinarie
e urgenti
soltanto le
circostanze
definite
tali: quel
che, come
tali,
definisce il
Cavaliere.
Il quinto
consiglio
dei Ministri
del
Berlusconi
IV ha
dichiarato
l'assoluta
necessità di
ridimensionare
l'azione dei
giudici; di
limitare il
diritto di
cronaca; di
declinare le
ragioni
dello Stato
con
l'esibizione,
la forza, le
armi
dell'Esercito.
E' finora il
caso più
emblematico
ed esplicito
di quel che
abbiamo
definito la
"militarizzazione
della
politica".
Non è mai
avvenuto in
Italia che i
soldati
fossero
chiamati a
far fronte
all'ordine
pubblico o
al controllo
delle città.
Nemmeno nei
terribili
mesi che
seguirono
alla morte
di Falcone e
Borsellino,
all'aperta
sfida
lanciata
contro lo
Stato dalla
Cosa Nostra
di Totò
Riina. In
quell'occasione,
l'Esercito
si limitò a
proteggere,
con "posti
fissi", gli
edifici
pubblici e i
luoghi
"sensibili"
liberando
dall'impegno
non
investigativo
le forze di
polizia. La
decisione
del governo
di
"parificare"
2.500
soldati
"agli agenti
di pubblica
sicurezza"
con "compiti
di
pattugliamento
e
perlustrazione"
delle città
inaugura una
nuova,
inedita
stagione.
Evocando
ragioni
(necessità)
di "ordine
pubblico" e
"sicurezza"
avvicina,
sovrappone
il diritto
alla
violenza.
Assegnata
all'Esercito,
altera il
suo segno la
funzione
amministrativa
della
polizia,
chiamata a
rendere
esecutivo il
diritto.
Quella
funzione e
presenza si
fa
intimidazione.
Non solo per
chi
trasgredisce,
ma per tutti
coloro che
non credono
"democratico"
che il
governo
sostenga le
sue
decisioni
con la
violenza.
Nello
slittamento
del
legittimo
esercizio
del potere
verso un
arbitrario
diritto
della forza,
come non
avvertire il
rischio che
chiunque
dissenta sia
considerato
un
"criminale"
perché
avversario
di una
"decisione
assoluta"
che sola può
assicurare
la
"governabilità"
e l'uscita
dalla crisi?
Non è questa
l'idea
politica, il
paradigma di
governo,
addirittura
il fondo
sublogico
che
consiglia a
Berlusconi
di
intervenire
anche contro
la
magistratura
limitando
l'uso delle
intercettazioni
o contro
l'informazione,
promettendo
il carcere a
chi pubblica
il testo o
il riassunto
di "un
ascolto"?
Magistratura
e
informazione,
i due ordini
che, in
un'equilibrata
architettura
di checks
and balances,
sono le
istituzioni
di controllo
dei poteri,
diventano in
questo
quadro i
pericolosi
agenti
attivi e
degenerati
del declino
da
affrontare.
"Nemici",
perché
impediscono
al sovrano
di
governare,
perché
sorvegliano
le sue
decisioni e
quella
vigilanza è
un ostacolo
che crea uno
status
necessitatis,
l'urgenza di
un
provvedimento
legislativo
che
Berlusconi
avrebbe
voluto con
immediata
forza di
legge. E'
stato
costretto a
una marcia
indietro dal
capo dello
Stato e,
dalla Lega,
a una
correzione
che
autorizza le
intercettazioni
anche per i
reati contro
la pubblica
amministrazione.
Ma il
disegno di
legge, se
non sarà
corretto in
Parlamento,
dissemina
l'iter
investigativo
e la sua
efficacia di
intralci,
intoppi,
legacci,
esclusioni,
vuoti,
bizzarri
obblighi (se
l'indagato è
un vescovo
bisognerà
avvertire il
segretario
di Stato
vaticano,
cioè il
ministro di
un altro
Stato).
Sono
ostacoli che
salvaguardano
le pratiche
più
spregiudicate
dei colletti
bianchi,
rendono più
fragile la
sicurezza
dei più
deboli,
senza
proteggere
davvero
alcuna
privacy. I
corifei del
sovrano
diffondono
numeri
farlocchi
sul passato,
mai spiegano
perché non
chiudono le
falle nella
rete dei
gestori di
telefonia,
venute alle
luce con
l'affare
Telecom. Né
svelano
all'opinione
pubblica
come e se
daranno mai
conto
dell'uso
delle
"intercettazioni
preventive"
che oggi, al
di fuori del
processo
penale e di
ogni tipo di
controllo
giurisdizionale,
possono
essere
effettuate
dalle
polizie e,
dal 2005,
anche dai
servizi
segreti su
delega del
presidente
del
Consiglio
con
l'autorizzazione
del
procuratore
presso la
Corte
d'Appello.
Non è la
privacy del
cittadino
che
interessa a
Berlusconi.
Gli
interessa
soltanto la
sua privacy
e la sua
immagine,
l'annullamento
di un paio
di
conversazioni
con Agostino
Saccà,
l'oblio di
altre in cui
di lui si
parla.
Intende
creare una
sorta di
"diritto
positivo
della crisi"
che impone
al giudice
di che cosa
occuparsi in
ossequio
alla
funzionalità
della
decisione
politica,
presentata
come
necessaria e
univoca.
Vuole
giornalisti
silenziosi,
intimiditi
dalla
minaccia del
carcere.
Vuole
editori
spaventati
dalle
possibili,
gravi
penitenze
economiche.
Il soldato
come
questurino,
il giudice
come
chierico, il
giornalista
come
laudatore
sono le tre
figure di
una scena
politica che
minaccia di
trasformare
radicalmente
la struttura
e il senso
della nostra
forma
costituzionale.
Sono i
fantasmi di
un tempo
sospeso dove
il governo
avrà più
potere e il
cittadino
meno
diritti,
meno
sicurezza,
meno
garanzie.
La
Repubblica,
14
giugno
2008
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