"dalli
all'untore zingaro!"
Nella storia quando
rabbia repressa e
frustrazioni sociali si
sono scaricate nella
caccia al "diverso" si
sono prodotti roghi,
pogrom e stermini.
Adesso vogliamo
replicare ? Sulla
tematica pubblichiamo un
commento dello Storico
dell'Inquisizione
Adriano Prosperi.
IL
POGROM
MODERNO
di
ADRIANO PROSPERI
(La
Repubblica
16 maggio 2008)
”Voi che
vivete sicuri nelle
vostre tiepide case”:
proprio voi,
telespettatori, lettori
di giornali, guardate e
chiedetevi se sono
esseri umani questa
donna, quest’uomo e
questo bambino che una
fotografia
terribile ci ha mostrato
caricati coi loro
stracci sul pianale di
un’Ape, in fuga davanti
a popoli ebbri di
sangue. Così, con le
parole di Primo Levi,
avrebbe potuto e dovuto
cominciare qualunque
reportage sugli eventi
di Ponticelli se il
giornalismo riuscisse
sempre ad avere una
memoria lunga e una
funzione civile, se non
si riducesse talvolta a
essere la registrazione
muta di orrori
quotidiani o la feroce
amplificazione di
pregiudizi e razzismi
diffusi. Là dove si
alzano ancora cumuli di
immondizia le fiamme
consumano ora baracche,
materassi e stracci
nelle tane dove altri
esseri umani hanno
trovato un rifugio meno
che bestiale.
La parola pogrom è
uscita dalle
rievocazioni storiche
della Shoah per
diventare realtà. Non è
nemmeno escluso che si
possa alla fine scoprire
che stavolta –per la
prima volta - gli
zingari hanno cominciato
a rubare bambini, come
voleva il pregiudizio di
quell’Italia contadina
che aveva tanti figli e
non conosceva altra
ricchezza che la sua
prole. Ma c’è un’altra
prima volta, questa
certa e indiscutibile,
che riguarda noi, gli
italiani. Da oggi la
parola «pogrom» ha
cessato di indicare solo
tragedie di altri tempi
e di altri popoli per
diventare la definizione
di atti compiuti da
folle di italiani.
Dobbiamo capire perché:
e non ci aiutano le
grida di incoraggiamento
alle folle inferocite
che giungono quasi da
ogni parte politica.
Bisognerebbe che
qualcuno facesse un
esame pacato di quel che
è accaduto nelle nostre
città e in quella vasta,
informe e desolata
periferia in cui è stata
trasformata tanta parte
del suolo della
penisola. Come tutti
sanno, la mercificazione
dei suoli edificabili è
stata una fonte
essenziale per risolvere
i problemi di bilancio
delle amministrazioni
pubbliche. Chi doveva
pensare a provvedere di
luoghi vivibili gli
emarginati, gli
immigrati, i residui
gruppi umani non
stanziali, ha fatto
tutt’altro. Una frazione
crescente di umanità
abita oggi in Italia
sotto i ponti dei fiumi
e delle autostrade,
vicino alle discariche,
in contesti di discarica
obbligata, senza acqua
corrente, con stufe di
fortuna. Qualcuno forse
ricorda ancora altri
bambini oltre a quelli
«rubati» dai rom—i figli
di famiglie rom morti
nei roghi provocati da
stufe occasionali. E ci
sono altre storie che
hanno un sapore
tristemente familiare:
quella del bambino rom
che non vuole più andare
a scuola perché i
compagni lo escludono
dal gruppo e dicono che
è sporco, che puzza.
Anche per gli ebrei dei
secoli scorsi si diceva
che fossero sporchi e
riconoscibili
dall’odore: ma lo
dicevano coloro che
prima li avevano chiusi
negli spazi stretti e
senza acqua dei ghetti.
Ma il problema in
assoluto più grave è un
altro: come e perché gli
italiani sono diventati
razzisti? Come e quando
le autorità di governo
prenderanno iniziative
serie per l’integrazione
civile e per la tutela
giuridica di tutti gli
abitanti del paese? Per
ora, si assiste solo a
una gara a chi grida di
più, a chi trova le
parole più minacciose
contro gli sventurati,
contro i dannati della
terra. E’ una raffica di
provvedimenti di
polizia, veri o
ventilati, una gara in
cui sono impegnati
amministratori locali e
poteri centrali di ogni
colore e che sarebbe
ridicola se non fosse
tragica per gli effetti
di insicurezza e di
violenza che provoca.
Siamo già alle ronde.
Aspettiamo
l’arrivo degli squadroni
della morte e delle
polizie fai-da-te.
Certo, se lo sguardo si
ferma non su quella
fotografia ma sulle
altre che le fanno
dissonante compagnia
sulle prime pagine
-quelle scattate nelle
aule del Parlamento- ci
sarebbe di che
rallegrarsi. Non più
risse nel Palazzo: anzi
un venticello dolce di
mutuo rispetto tra
maggioranza e
opposizione, un gusto
della correttezza, uno
scimmiottamento del
perfetto stile
anglosassone che fanno
pensare a quelle
caricature dei nostri
vezzi provinciali in cui
eccelleva Alberto Sordi.
Di fatto nel Palazzo
circola un’aria di
intesa e di pace che
riscalda il cuore: il
governo e la sua ombra
camminano lungo la
stessa linea di luce,
come si conviene a un
paese che ha una
coscienza non più
divisa. E tuttavia, è
spontaneo per chi ha una
memoria lunga riflettere
sulla opposizione
speculare tra l’Italia
nuova, quella della pace
nei palazzi del potere e
della guerra tra poveri,
e l’Italia antica,
quella della durissima
lotta tra partiti
inconciliabili e dello
spirito di solidarietà
diffuso in una società
memore della sua storia
e delle sue radici
popolari. Oggi il
Palazzo e
la Piazza
appaiono ancora una
volta divisi, ma la loro
divisione è di tipo
insolito e inquietante.
Diceva Francesco
Guicciardini della
Firenze del ‘500 che
«spesso tra il palazzo e
la piazza c’è una nebbia
sì folta o uno muro sì
grosso che...tanto sa el
popolo di quello che fa
chi governa o della
ragione perché lo fa,
quanto delle cose che si
fanno in India».
Oggi ancora una volta la
scena italiana è divisa
tra il palazzo e la
piazza. Ma se allora era
il popolo che non vedeva
ciò che facevano i
potenti nel palazzo,
oggi sono i potenti che
sembrano non vedere quel
che accade nelle piazze
e nelle periferie di
questo nostro paese. O
forse lo vedono:
forse
il pensiero nascosto
dietro tutto quel fair
play è che conviene a
chi sta sul ponte di
comando lasciare che la
violenza scatenata dal
malgoverno sia
incanalata contro i
soliti capri espiatori.