Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno"

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SALVEMINI: IL PREZZO DELLA LIBERTA’

di Massimo Salvadori (L'Incontro, ott. 2007)

Forse Salvemini si presenta come il più grande maestro della nostra vita pubblica del Novecento. Si guardi infatti alla sicurezza infallibile con cui quest’uomo, armato di principi, valori e categorie di giudizio che appaiono in effetti per molti aspetti di disarmante semplicità, seppe comprendere e combattere, con una sicurezza infallibile e senza deflettere, i volti demoniaci del potere totalitario, le debolezze e i tradimenti dei Paesi democratici nell’era della grande crisi europea, le turpitudini del nazionalismo, gli egoismi dei conservatori chiusi nella difesa dei loro interessi. Non si piegò a Mussolini, non a Stalin, non a Chamberlain e a Churchill, e neppure ai leader americani quando questi facevano i fatti loro sbandierando la democrazia, combattè il comunismo che negava la libertà e la democrazia politica ma non cadde mai nella trappola dell’anticomunismo che in nome della libertà e della democrazia faceva barriera contro le lotte guidate dai comunisti per il  miglioramento delle condizioni di vita delle masse lavoratrici. Proviamo a trovare un altro che possa tirare un bilancio come il suo tra i grandi della cultura italiana del secolo. Non il conservatore liberale Croce, non l’altro padre del liberalismo Einaudi, non il nazionalfascista Gentile, non il comunista Gramsci: tutti dotati di categorie teoriche assai più elaborate e complesse di quelle di Salvemini, ma tutti a lui inferiori per i risultati nella loro applicazione di fronte ai maggiori e più drammatici nodi del Novecento.

I fondamenti dell’etica di Salvemini

L’etica di Salvemini, così come egli ebbe ad affermarla con una linea di continuità mai venuta meno nel corso della sua lunga vita, era radicata in una concezione che potremmo definire socratico-cristiana, laica per il suo credere non nella vita dell’aldilà ma nell’autonomia e autosufficienza della morale umana; religiosa per la convinzione che l’uomo il quale non voglia precipitare nella bestialità debba obbedire ad alcuni valori etici irrinunciabili; razionalistica per la fiducia che la ragione può guidare il nostro agire nell’impegno volto a migliorare le condizioni dell’esistenza e impedire ai conflitti di degenerare fino a distruggere il vivere civile. In questo senso egli si considerava cristiano, laico e illuminista. Nel testamento steso nel 1955 scrisse: “Se ammirare e cercare di seguire gli insegnamenti morali di Gesù Cristo, senza curarsi se Gesù Cristo sia stato figlio di Dio o no, intendo morire da cristiano, come cercai di vivere – senza purtroppo esserci riuscito, come avrei voluto”.

Nel 1947 aveva dichiarato nel suo diario che il suo credo era tutto contenuto nell’esempio di Socrate buon cittadino fedele ai propri ideali sino alle estreme conseguenze, nel Critone di Platone e nel Discorso della Montagna. Le origini di questa visione e di questo sentimento delle cose Salvemini le aveva già chiaramente indicate nelle annotazioni dirette a ricostruire le linee della sua formazione giovanile. La lezione su quanto fosse dura la condizione del povero anzitutto nel Sud d’Italia l’aveva imparata sulla sua pelle: condizione a cui aveva potuto fuggire unicamente grazie alla borsa di studio senza la quale  avrebbe probabilmente dovuto tornarsene al suo paese e magari farsi prete. Negli anni universitari i suoi maestri, tra cui primeggiava Villari, gli insegnarono – si badi a questo elenco di virtù etico-intellettuali – che non si deve essere mummie, ma uomini; che “il carattere val più dell’ingegno e la dottrina”; che le persone oneste sono pronte a rivedere le proprie opinioni quando si presentano elementi nuovi i quali smentiscono o richiedono una revisione; che “il bianco era bianco, e il nero era nero. Il bene era bene e il male era male”.

Dal canto suo la frequentazione di amici diversi per fedi religiose e politiche e orientamenti culturali gli fece capire che una convergenza nell’impegno morale costituisce motivo di rispetto per gli altri e di accettazione reciproca. Si pensi in proposito al rapporto di ammirazione e di stima che egli avrebbe in futuro stabilito con il devotissimo prete Sturzo, da lui diversissimo. Si formò su questi principi etici e con essi tirò avanti tutta la sua esistenza. La sintesi era che la vita ben condotta richiede impegno e sacrificio, vale a dire la disponibilità a mettersi in gioco. Una virtù che, dieci anni prima della morte e sulla scorta dell’esperienza di tutta una vita, lamentava che tanto scarseggiasse nel carattere degli italiani. Nel 1947 scriveva infatti a Rossi:

Io temo assai che il sacrificio a cui più si ripugna oggi in Italia è il sacrificio di pensare con chiarezza, con logica, con buon senso, con coraggio. Eppure, qui solamente è la salvezza, e non nell’essere e nel voler essere “pecore matte””.

Pensare con chiarezza e poi, quando il momento lo richiede, correre rischi anche estremi per salvare la propria dignità e quella del proprio Paese, pagando di persona. Fu, ad esempio, per ottemperare a questi valori che, superati i quarant’anni e di salute non di ferro, si arruolò volontario nella prima guerra mondiale finendo sul Carso e che, dopo “lo scossone” del delitto Matteotti, non esitò tra i primi e nel modo più risoluto a gettarsi nella mischia, a sconvolgere le basi della sua esistenza, a rinunciare alla cattedra, ad andare in esilio, a intraprendere la sua crociata contro la dittatura fascista, obbedendo all’imperativo “fa quel che devi, avvenga quel che può”.

I fondamenti della politica

Se quelli che ho sopra indicato costituirono i fondamenti della sua etica, quelli della sua politica e storiografia Salvemini nel 1922 li indicò come segue: “Illuminismo, storicismo, marxismo: queste le basi del mio pensiero”. In questa indicazione manca però un elemento importante: il richiamo all’elitismo di Mosca, alla cui dottrina egli aveva aderito in quel periodo, asserendo poi di essere stato fortemente colpito dalla letteratura, seconda edizione degli Elementi di scienza politica, così da affermare nel 1925 che:

la storia non è fatta né da moltitudini inerti, né da oligarchie paralitiche. La storia è fatta dalle minoranze consapevoli e attive, le quali, vincendo le inerzie delle moltitudini le trascinano verso nuove condizioni di vita, anche contro la loro volontà”.

Salvemini attuò una sua propria sintesi dell’illuminismo, storicismo, marxismo ed elitismo, che però, a differenza di Mosca, non considerò necessariamente in contrasto con una concezione realistica della democrazia. Dall’Illuminismo ricavò l’idea che l’uomo è dotato di facoltà razionali preposte a guidare l’azione nella costruzione di un mondo insidiato dai pregiudizi, dall’intolleranza e dai fanatismi, e che la Storia è suscettibile di un progresso che poggia non su forze immanenti, quindi non garantito e affidato alle libere e difficili scelte degli individui e dei gruppi.

Dallo storicismo – che egli intendeva in maniera assai generica – prese l’idea che la Storia non è riconducibile ad alcun disegno prefissato e quindi statico, ma è soggetta ad uno sviluppo continuo che modifica le basi materiali e spirituali dell’attività umana, che perciò deve essere compresa nella specificità delle sue condizioni. Dal marxismo la consapevolezza dell’importanza primaria del fattore economico nella conformazione delle relazioni sociali e delle istituzioni, le quali sono caratterizzate dalla divisione di interessi tra gruppi e classi sociali che operano in contrasto tra loro, e l’impulso a lottare per l’emancipazione delle masse popolari. L’esito di questa sintesi fu l’adesione ad un progetto di progresso morale e sociale il cui fine primario era il miglioramento delle classi e degli strati sociali più deboli. Di qui il significato della sua partecipazione nella sua prima stagione al movimento socialista, che in Italia voleva dire anzitutto impegno per l’emancipazione dei contadini e dei braccianti del Mezzogiorno, e della democrazia come metodo per dare voce alle varie componenti della società e permettere ai ceti più deboli di  gettare sul piatto della bilancia i loro interessi e diritti conculcati dalle varie forme del conservatorismo e dell’autoritarismo al servizio degli strati più forti ancorati alla difesa dei propri privilegi.

Dall’elitismo gli venne la persuasione che sono le minoranze consapevoli e organizzate ad avere la capacità di coagulare le idee e le forze politiche e sociali in grado di  attivare e interpretare la dialettica storica. Si trattò di un elitismo che Salvemini interpretò alla luce di ciò che potremmo definire un volontarismo estremistico, espresso infinite volte dopo la delusione a lui venuta dal Partito socialista da cui uscì nel 1911, nella teoria, fatta propria anche da Dorso, che per cambiare e guidare l’Italia malata occorreva la formazione e l’unione di alcune decine di uomini intransigenti, dalla fibra morale inflessibile e dalle idee chiare capaci di analizzare la realtà, individuare le soluzioni e indicarle al Paese. Ma un’ultima componente bisogna indicare: la visione laica della vita.

Che cosa intendesse per approccio laico all’esistenza Salvemini lo chiarì sopratutto negli scritti raccolti nel volume Cultura e laicità pubblicato nel 1914. il binomio non è casuale. Per lui non si dà propriamente cultura senza che questa poggi su un atteggiamento laico. La cultura vive di confronto e scontro di idee, il suo nutrimento è la libertà di pensiero. Là dove incombe un tribunale, religioso o politico che somministra una verità unica, la cultura ne rimane soffocata, veste una livrea imposta dal potere di turno che aspira a stabilire un monopolio, che premia il giudizio dipendente e aborre quello indipendente. Per questo si oppose senza tregua prima all’integralismo dei cattolici, poi a quello dei fascisti e dei comunisti, ma in generale ad ogni forma di quello che chiamava clericalismo con o senza tonaca. Nel 1938 in Storia e scienza affermò che la “storia e le scienze sociali, più che qualsiasi scienza fisica, hanno bisogno di un’atmosfera di libera competizione fra diverse scuole di pensiero”, che “se viene soppressa la libertà in favore di una singola scuola ciò significa la sentenza di morte dei nostri studi”, e che “l’intolleranza dittatoriale rampolla dalla fede nell’infallibilità, come la tolleranza e la libertà rampollano dalla umiltà democratica”.

Il socialismo e il riformismo

L’iter politico di Salvemini fu interamente dominato da un intento educativo. Era un maestro nato, e tale sempre rimase. Educare i più deboli alla lotta per allargare la sfera dei loro diritti, per la loro emancipazione dalla miseria economica e dall’abbruttimento spirituale, per portarli a farsi valere e contare, educare le èlites intellettuali del suo Paese alla conoscenza dei problemi sul tappeto e a dotarsi degli strumenti necessari a capire la società in cui vivevano e a renderla migliore: questa fu la sua missione che lo rese il vero erede di Mazzini nel Novecento italiano.

Fu una scelta obbligata per il giovane Salvemini aderire nel 1893 al Partito socialista, nelle cui file militò per quasi un ventennio. Nel Partito recitò pressoché sempre, secondo il suo incoercibile temperamento, la parte del protestatario. La fece negli anni della crisi di fine secolo, quando era animato da finalità radicali antimonarchiche e invocava l’abbandono delle vie legali; la fece nel decennio giolittiano, quando, avendo fatto della questione meridionale il baricentro della sua azione, una volta convertitosi al riformismo entrò in contrasto con i rivoluzionari per il loro ideologismo astratto e con il riformismo turatiano perchè non abbastanza incisivo e troppo rivolto alla tutela degli interessi settoriali degli operai del Nord. Ma nel fare il protestatario seminò idee, idee divenute patrimonio della nostra cultura politica nazionale, che influirono sulla mente dei Gobetti, dei Dorso, dei Gramsci, dei Rosselli, dei Rossi e di tanti altri.

Il socialismo del Salvemini, una volta convertitosi al riformismo, si distaccava dal marxismo perchè non credeva nel grande rovesciamento rivoluzionario della società e nella fede nell’avvento della nuova società comunista, e invece credeva nelle riforme, in quelle vere, che, mobilitando le forze che sono ad esse interessate, rompono certe cristallizzazioni di interessi e aprono la strada a nuovi equilibri più avanzati. Era un attivista e detestava l’inerzia che si appellava alla necessità dello sviluppo storico al fine di ritardare la lotta per obiettivi che a lui parevano del tutto maturi, in nome dell’attesa opportunistica della maturazione delle cose, del momento giusto. Al riguardo, memorabili furono le parole che Salvemini, il quale spingeva perchè il Partito socialista si mettesse risolutamente a capo della lotta per il suffragio universale indispensabile per dare ai contadini meridionali un peso nuovo, rivolse al congresso del Partito del 1910 all’indirizzo dell’esitante Turati, il quale temeva l’immaturità delle arretrate masse contadine del Sud. Turati – accusò in maniera tagliente Salvemini – tira in ballo la realtà delle cose. “Ah! Le cose. Parola comodissima, le cose! Ma noi non siamo cose. Noi dobbiamo reagire e agire sulle cose. Per questo ci siamo costituiti in Partito”.

Poco dopo, avendo perduto la sua fiducia nel Partito, lo abbandonò; e prese la strada, che non avrebbe più abbandonato, dell’elitismo democratico, dell’appello privilegiato all’iniziativa delle poche decine di uomini illuminati e competenti cui affidava il compito di rinnovare e guidare la politica italiana. Era una strada di fatto che entrava in urto con la politica moderna avente i suoi perni nei Partiti organizzati, di cui pure in quanto studioso era ben consapevole come appare chiaro quando solo ci si soffermi sulla sua netta affermazione in un saggio del 1937 – non alieno da annotazioni realistiche che potremmo definire schumpeteriane, che la democrazia “è un regime di libera concorrenza fra tutte le minoranze che si organizzano in Partiti e aspirano al governo”. Ma era una strada che – si badi – andava bene per lui, in quanto gli consentì di svolgere il ruolo – che si era scelto e corrispondeva appieno al tipo della sua personalità – di infaticabile stimolatore di energie intellettuali e politiche da mettere a disposizione di chiunque ne volesse far uso, Partiti compresi. D’altronde era ben consapevole sia di ciò che poteva e sapeva fare e di ciò che non sapeva e non voleva fare. Sulla sua impartiticità e impoliticità, diciamo così, egli si espresse mille volte dopo la sua uscita dal Partito socialista; basti qui citarne da una lettera del 1955 a Ernesto Rossi una delle ultime formulazioni:

Uomini come te – e direi anche me – non sono adatti ai traffici necessari per concludere in politica. La nostra influenza consiste tutta nel franco parlare a tutti e nell’avvezzare la gente a scrivere chiaro e a non voler sentire di chiacchere più o meno crociane. Le idee sono lì: chi vuole ne approfitti senza pagare diritti di autore; ma non pretenda di mettersi sotto un carretto, di cui noi siamo incapaci di essere conducenti”.

Da quando smise i bollenti spiriti della sua prima giovinezza, Salvemini rimase un riformista, e anche dopo essersi staccato dal Partito socialista, non recise mai il suo legame ideale con il socialismo inteso, appunto mediante le necessarie riforme, a dotare i più deboli di quelle risorse senza le quali non vi è vita decente. Non era quasi mai contento di niente e di nessuno, ma nelle sue scelte di campo non veniva meno, tracciando netta la linea di demarcazione tra gli amici più o meno buoni e graditi con i quali era disposto a marciare e gli avversari con cui non voleva aver niente a che fare.

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