Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno"

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IL RITORNO DEL SACRO E LE RAGIONI DELLA LAICITA'

 di CARLO AUGUSTO VIANO

A prima vista la laicità appare un problema italiano, e la cosa è comprensibile, perché esso è una conseguenza della storia del nostro paese, su cui non ha cessato di farsi sentire l’eredità del potere temporale della Chiesa. Questa non ha accettato di buon grado la fine dello stato pontificio, né ha visto in essa una sorta di “purificazione” e “liberazione” da preoccupazioni indebite, come sostiene una versione corrente, resa canonica da Giovanni Spadolini. Né del resto è verosimile che una cosa così importante come il potere politico dei papi sia finita con la scaramuccia di Porta Pia. L’eredità del potere temporale ha reso difficile introdurre in Italia le garanzie costituzionali della separazione tra stato e chiesa, sulle quali può contare la Francia, o incorporare la religione nello stato, come è avvenuto in Inghilterra. Perfino gli Stati Uniti, dove i riferimenti religiosi sembrano intrecciarsi a quelli politici, il bilanciamento di poteri espliciti e di funzioni implicite garantisce l’indipendenza della vita pubblica dai controlli religiosi.

La laicità delle società civili sta diventando un problema non soltanto italiano. Fino alla prima guerra mondiale le religioni avevano contrastato fermamente sia la pretesa degli stati moderni di esercitare la supremazia su tutti gli aspetti della vita associata, sia, soprattutto, i regimi liberali e il loro carattere laico, resistendo a una tendenza che nel mondo occidentale sembrava destinata a prevalere, e avevano puntato su regimi autoritari tradizionalisti e sulle masse emarginate. Su queste contavano anche le ideologie popolari, sia quelle socialiste sia quelle conservatrici, dalle quali si sarebbero sviluppate le ideologie totalitarie novecentesche. Quando dopo il 1918 i regimi liberali sembrarono non reggere alla guerra prima e alle crisi che segnarono la pace poi, molte chiese, ma soprattutto la Chiesa cattolica, scelsero l’alleanza con le ideologie fasciste: un modo per restare fedeli al tradizionalismo, ma anche per erigere una barriera contro il comunismo internazionale. Tuttavia non si trattava di una mossa soltanto difensiva, perché le chiese erano attratte dalla prospettiva di poter dettare regole alla società civile, appoggiandosi ad autorità politiche, che rifiutavano ogni forma di controllo e di limitazione dei poteri. Forte di queste prerogative, nel 1929 il governo fascista poteva stipulare con il papa un concordato, che ripristinava addirittura uno stato pontificio in dimensioni ridotte e sanciva l’alienazione di funzioni statali a favore della Chiesa, cui veniva riconosciuta una sovranità parallela a quella dello stato.

Con la seconda guerra mondiale i regimi liberali vinsero il confronto con i fascismi e dopo la guerra riuscirono a fronteggiare la sfida comunista, mettendo insieme sviluppo economico e diffusione della ricchezza, senza ricorrere a metodi coercitivi, che invece i regimi comunisti dovevano impiegare, soprattutto quando arrivavano al potere in paesi nei quali c’era una qualche tradizione liberale. Le chiese dovettero riconoscere lo stato di fatto e scontare l’appoggio decisivo offerto ai fascismi, accettando l’alleanza strumentale con i regimi politici liberali. Per contenere gli effetti negativi di questa scelta obbligata, preferirono mettere l’accento sui contenuti democratici delle società liberali, accentuandone le derive populistiche e gli aspetti corporativi, da opporre alle pratiche capitalistiche. Tuttavia nella fase cruciale della guerra fredda, nel corso degli anni ottanta, tutto il fronte occidentale puntò sull’innesto di fermenti liberali nelle società comuniste, facendo valere la tutela dei diritti umani, e anche le chiese dovettero adattarsi, compresa la Chiesa cattolica, che nella rivendicazione di diritti individuali aveva sempre scorto una pericolosa eredità di Illuminismo e Rivoluzione francese. Per offrire una versione propria dei diritti umani, la Chiesa cattolica ne ha dato un’interpretazione essenzialmente religiosa, ponendo l’accento sulla libertà di religione, intesa come una libertà di rango superiore a tutte le altre, consistente non nell’esercizio di un diritto individuale, ma come il riconoscimento che andrebbe tributato alle autorità religiose

Dopo la fine della guerra fredda le chiese si sono trovate di fronte a una società secolarizzata, nella quale il liberalismo si era affermato più nei modi di vita e nei costumi che nella cultura politica e nella sensibilità diffusa. A questo punto le agenzie religiose hanno dovuto riorientarsi e hanno dovuto pensare a conquistare, o a riconquistare il mondo: Giovanni Paolo II non ha nascosto l’ambizione di battere il capitalismo e l’individualismo liberale come riteneva di aver vinto il comunismo. Del resto, nel momento in cui la minaccia comunista sembrava scomparsa, non c’erano più ragioni per accettare i regimi liberali e anzi si prospettava per le religioni la possibilità di sostituire le ideologie che avevano cercato di plasmare le società. Erano infatti le ideologie totalitarie che giustificavano la presa e l’esercizio del potere, anche con mezzi violenti, indipendentemente dalle scelte degli individui e in base alla presunzione di sapere in quale direzione si sviluppa la storia dell’umanità. Quando queste ideologie sono entrate in crisi è sembrato che dovessero ritornare le prospettive liberali, che avevano costituito lo sfondo dell’opposizione ai fascismi durante la seconda guerra mondiale e della resistenza nei confronti del comunismo internazionale. Invece qualcosa è accaduto anche nelle società liberali, nelle quali alla fine degli anni sessanta si è interrotta la crescita del dopoguerra, che aveva consentito lo sviluppo economico e il miglioramento della società nel suo complesso. La funzione assistenziale, che anche i regimi capitalistici erano in grado di esercitare, soprattutto attraverso la piena occupazione, si sono indebolite e i regimi liberali sono apparsi socialmente duri e discriminatori. Perciò, a cominciare dagli anni settanta, si è profilata una reazione al liberalismo, interna alle stesse società liberali, che si sono sentite incapaci di garantire la solidarietà sociale; e si è arrivati al punto di attribuire a esse i caratteri propri delle società autoritarie, come se l’uniformità dei gusti e dei consumi, condizione necessaria per il loro soddisfacimento a basso prezzo, fosse una specie di imposizione simile a quella esercitata dai regimi dittatoriali. Dentro le società liberali ha preso corpo una nostalgia della comunità, contrapposta fin dall’Ottocento alla società, intesa come un semplice aggregato meccanico di individui, che stipulano linee di condotta compatibili con i propri interessi individuali egoistici, priva di un’autentica forza morale.

Il comunitarismo ha offerto un’ancora di salvezza sia a chi aveva accettato il liberalismo come forma di male minore e come strumento di lotta ideologica, sia a chi doveva constatare, dopo il loro insuccesso evidente, che le ideologie totalitarie avevano fallito proprio perché avevano respinto strumenti liberali, tanto nella progettazione delle società che si erano proposte di realizzare, quanto nelle spiegazioni teoriche dei fenomeni sociali che intendevano governare. Il comunitarismo era una buona base per riproporre le fedi religiose, non più come strumento di resistenza ai totalitarismi sopravvissuti alla seconda guerra mondiale, ma come antidoti al lassismo morale delle società liberali, per la loro capacità di creare saldi vincoli di solidarietà. Ma un’impostazione di questo genere andava bene anche per chi cercava di ricuperare quanto poteva delle ideologie totalizzanti. Si sono così potute realizzare strane alleanze delle agenzie religiose con eredi delle correnti politiche di destra, ma anche con eredi delle ideologie di sinistra, sicché personaggi provenienti da matrici culturali opposte si sono mobilitati insieme contro le prospettive liberali. Fondamentalisti protestanti, tradizionalisti cattolici, conservatori, fascisti, marxisti delle più diverse sètte hanno avuto l’impressione di poter sostenersi a vicenda e di dover battere insieme il preoccupante allargamento delle libertà individuali.

Si spiegano così gli appelli alle tradizioni, che hanno ripreso vigore anche nella cultura occidentale, in cui pare in crisi l’orgoglio dell’innovazione e della correzione delle tradizioni: perfino l’Europa, che sembrava la patria di questo orgoglio, pare ora essere diventata incline alla ricerca delle proprie radici, che da più parti si vorrebbero far coincidere con il cristianesimo. Dentro le tradizioni si può trovare di tutto, soprattutto se si tratta di tradizioni europee e cristiane, perché l’Europa è stata un territorio aperto di passaggio e di scambi e il cristianesimo un insieme di movimenti religiosi di lunga durata; ma, se proprio si vuole andare a rovistare nei sotterranei della nostra storia, si può osservare che il cristianesimo annovera tra le proprie componenti il rifiuto della religiosità sacerdotale dell’ebraismo antico e ha ereditato la religiosità diffusa, nata nelle sinagoghe in contrapposizione a quella concentrata del tempio, un’eredità non estinta neppure quando il clero cristiano ha ripristinato la casta sacerdotale, perché si è sempre mantenuto un dualismo tra potere religioso e potere politico, derivato dall’autorità imperiale romana. Non la bontà intrinseca del cristianesimo, ma circostanze esterne, come la dissoluzione della religione territoriale del tempio di Gerusalemme e la persistenza di ordinamenti romani, hanno introdotto nel cristianesimo la dualità di chiesa e impero. Né va dimenticata l’opposizione tra fede e filosofia, che la cultura europea ha assorbito dalla cultura islamica. Qui ha messo radici il laicismo, che è essenzialmente limitazione dell’autorità sacerdotale e rifiuto di riconoscere ai sacerdoti un potere che possa esercitarsi, direttamente o indirettamente, in maniera coercitiva. L’anticlericalismo, che è una componente nobile ed essenziale del laicismo, è un motivo profondamente inserito nella tradizione occidentale e ha le proprie radici nella pretesa dei laici, cioè di coloro che non sono clero, di essere autosufficienti, cioè di non avere bisogno di autorità religiose, dotate di poteri soprannaturali e perciò sottratte al controllo dei fedeli, perché i fedeli sono, loro, il popolo di Dio e rivendicano la capacità di affidarsi a personalità religiose scelte indipendentemente da qualsiasi autorità.

Quando è ricomparsa l’antica dottrina romana, che faceva del popolo l’unica fonte di qualsiasi potere, il popolo non ha più avuto bisogno di considerarsi “popolo di Dio” per respingere qualsiasi rivendicazione di potere da parte del clero. I membri del clero si sono trovati davanti a un’alternativa: o trasformarsi in funzionari pubblici, con l’incarico di sovrintendere all’ordine religioso e di promuovere l’istruzione religiosa, o ridursi a cittadini privati, dotati di autorità morale sui membri delle comunità che li riconoscono, ma del tutto privi del potere di costrizione. Si è così profilata l’opposizione tra una religione civile, di carattere pubblico, su cui vigila il potere politico attraverso funzionari specializzati, e il confinamento della religione nella sfera privata, con l’affidamento di credenze e pratiche religiose a persone prive di status ufficiale, cioè tale da dover essere riconosciuto da chiunque faccia parta della società politica.

Si è spesso rimproverato al laicismo di voler sostituire le religioni positive con una religione di stato, conferendo a quest’ultimo mansioni etiche, tra le quali rientrerebbe appunto l’instaurazione di una religione civile e la vigilanza su di essa. Posizioni di questo genere sono presenti nella tradizione repubblicana, sono state sostenute da filosofi (da Rousseau a Hegel) e hanno trovato realizzazioni diverse dalla Rivoluzione francese al Reich tedesco. Sono motivi presenti nei movimenti rivoluzionari e nelle ideologie totalitarie, che spesso accompagnano o seguono quei movimenti, ma anche in autori liberali o democratici, come Benedetto Croce o John Dewey, che hanno parlato di una religione o religiosità laica e filosofica; del resto intellettuali, i quali pure auspicano società laiche, lamentano che esse non sappiamo soddisfare il “bisogno di sacro” dei loro membri.

La Terza repubblica francese, cui è stata attribuita la pratica della separazione assoluta tra politica e religione, è stata accusata di voler eliminare la pratica religiosa, per sostituirla con una cultura esclusivamente laica. In realtà la Terza repubblica si proponeva di limitare e alla fine di abolire gli aiuti alle istituzioni religiose erogati con mezzi pubblici e di far gravare sui membri delle chiese tutti gli oneri inerenti al loro mantenimento. La caratteristica più importante di quel regime era costituita dall’offerta di un sistema pubblico di istruzione completo, in grado di rendere inutile il ricorso all’educazione religiosa, che doveva rimanere possibile, ma totalmente privata. Questa interpretazione del laicismo presupponeva l’idea che la religione non costituisce un aspetto indispensabile della vita individuale e collettiva, tale da dover essere incoraggiato o protetto da un potere pubblico, e che la vita religiosa ha diritto alla tutela solo in quanto rientra nelle libertà individuali.

Il laicismo “alla francese” non era nato nel vuoto e teneva conto di ciò che era avvenuto durante la Restaurazione, quando il cristianesimo europeo, ma soprattutto il cattolicesimo, aveva cercato di riconquistare le masse, ricuperando credenze e pratiche superstiziose e agendo come una vera e propria forza eversiva dei regimi politici legittimi. L’esito estremo di questa tendenza emerse chiaramente nel corso del ventesimo secolo, quando movimenti cristiani, tra i quali il cattolicesimo, stipularono alleanze con i movimenti fascisti. Ma sono state proprio le ideologie totalitarie del ventesimo secolo, che hanno preso le mosse dalla pretesa insufficienza dei regimi liberali e hanno rinverdito la nostalgia per le comunità organiche originarie, ad aprire la strada per il ritorno delle religioni nelle società industriali della seconda metà del Novecento, nelle quali modi di vita lontani dalle prescrizioni religiose si sono accompagnati alla riscoperta delle credenze religiose. Questa discrepanza tra credenze e pratiche è stata spesso considerata una segno dell’alienazione di quelle società, dovuta alla loro organizzazione economica e sociale o al predominio della cultura scientifica, capace di generare tecniche efficaci, ma non di soddisfare le esigenze autentiche delle persone.

Tutto ciò ha indotto a parlare di un ritorno del sacro, cui guardano con simpatia anche gli eredi smarriti delle ideologie totalizzanti, pensando di aver trovato sostituti di ciò che avevano perduto e rivalse nei confronti delle componenti liberali, che erano uscite dalla crisi meglio di altre. Ma esso è anche un pretesto per abbandonare la formula liberale della tolleranza, proprio nel momento in cui irrompono nuove religioni o si profilano nuove frontiere religiose. Ciò che credenti e fautori non credenti delle religioni intendono ricavare da questo revival è un ritorno delle religioni nello spazio pubblico, da cui esse sarebbero state espulse dallo stato moderno, laico e succube del primato riconosciuto alla sapere scientifico. È questa la nuova frontiera del laicismo, della quale si deve tener conto, per dare una versione adeguata delle istanze laiche.

C’è una grande confusione sulla distinzione tra pubblico e privato. È del tutto naturale che le religioni esigano di manifestarsi in pubblico, per rendere testimonianza, per rafforzare la propria coesione e per esibirla, per imporsi e per ottenere riconoscimenti. Dal canto loro i regimi laici liberali non hanno ragioni per impedire la manifestazione pubblica delle religioni e, quando impongono restrizioni, devono agire soltanto per salvaguardare le libertà di chi non condivide le credenze o rifiuta le pratiche presupposte da quelle manifestazioni. Ma la manifestazione pubblica di una credenza è una cosa diversa dalla sua ammissione nella sfera pubblica, cioè dalla sua accettazione come criterio in base al quale prendere decisioni pubbliche, cioè tali che valgano per tutta la società, prese da autorità che esercitano il potere indipendentemente dalle proprie opinioni private e dalla appartenenza a qualche chiesa.

La sfera pubblica non è dominata da valori condivisi o da credenze uniformi, perché le decisioni pubbliche non esigono che i loro titolari accolgano particolari valori o credenze tra le loro convinzioni personali, che possono esplicitamente manifestare: giudici possono credere nella risurrezione dei morti o nei miracoli, amministratori possono ritenere che una società fondata sul dono sia migliore di una società fondata sul calcolo economico, medici possono fidarsi della pranoterapia, ma nessuno di loro può emanare una sentenza che riconosca la risurrezione di una persona o un evento miracoloso, redigere un bilancio che preveda la donazione generosa dei beni pubblici come premessa per ottenerne altrettanti in cambio o scrivere nella cartella clinica pratiche pranoterapiche sostitutive di quelle riconosciute. Né è corretto far coincidere la sfera pubblica con la conoscenza scientifica, perché non tutto ciò che le appartiene deriva dalla conoscenza scientifica. Nelle società moderne o progredite, la sfera pubblica ha nel proprio nucleo più resistente le verità scientifiche più sicure, che soltanto teologi, filosofi o letterati mettono in dubbio, alla pari con stregoni, astrologi e impostori, ma non contiene teorie scientifiche vere e proprie, che passano al vaglio di una comunità relativamente ristretta, quale è la comunità scientifica. In compenso nella sfera pubblica agiscono criteri empirici collaudati: nessun trattato scientifico contiene le proposizioni “i morti non risorgono” o “i miracoli non accadono”, anche se questi sono criteri normali di scelte pubbliche.

Il laicismo contemporaneo deve affrontare la sfida costituita dalle pretese delle religioni di rientrare nella sfera pubblica, per imporre le prescrizioni delle autorità religiose indipendentemente dalla volontà dei cittadini. Lo strumento con cui le agenzie religiose sostengono le pretese di intervenire nella sfera pubblica è costituito dal riconoscimento di un pregio particolare alle appartenenze religiose. Anche personaggi che si presentano come esponenti della cultura laica esortano a valorizzare le religioni, che possederebbero qualcosa in più rispetto alle altre forme di esperienza, “una marcia in più”, come ha detto un ministro della repubblica, autorevole rappresentante della cultura socialista. Per fronteggiare questa minaccia il laicismo è andato in cerca di titoli di merito forti, presentandosi come esercizio intransigente della ragione, intesa come capacità di conoscere verità sicure, come culto sistematico del dubbio, come pratica di una morale universale indipendente da ipotesi teologiche, come libertà di coscienza e così via: sono tutte formulazioni eulogistiche, che intendono attribuire al laicismo pregi particolari.

Il laicismo dovrebbe liberarsi dal complesso di inferiorità nei confronti delle religioni, smettendo di attribuire a esse virtù che non posseggono. Come le altre esperienze, le religioni, nella migliore delle ipotesi, possono essere vissute in più di un modo e hanno aspetti buoni e cattivi. Non è sempre vero che esse conferiscano alle società maggior forza e coesione e ne promuovano l’aspetto pacifico: nel mondo attuale esse segnano linee di frattura e possibili fronti di guerra, come hanno fatto le ideologie fino all’ultimo quarto del secolo scorso. All’interno di ogni società le religioni possono rafforzare l’uniformità o introdurre divisioni e non è detto che l’una o l’altra di queste alternative sia un bene in sé. Il laicismo non dovrebbe accettare la competizione su questo terreno, pretendendo di promuovere qualcosa di simile allo stato etico, cioè a uno stato che imponga principi morali, virtù o qualcosa del genere. Un certo grado di uniformità è probabilmente necessario per le società, ma per quelle sviluppate occorrono soprattutto aree di compatibilità e un altro grado almeno di sopportazione, ma soprattutto di utilizzazione delle differenze, generate dalla natura, dalla storia delle persone, dalle alternative offerte dalla vita associata. Proprio perché favorisce la disobbedienza una società in cui sia apprezzata la diversità più che l’uniformità è l’ambiente adatto alla realizzazione della laicità, perché il laicismo si propone non di edificare i cittadini e di imporre loro un modello di bontà, ma di limitare le pretese delle autorità religiose e di difendere l’autonomia dei singoli nei loro confronti. In questo esso si distingue dal repubblicanesimo, che intende lo stato come una società fondata sull’esercizio di particolari virtù ed esige una religione civile.

Un segno attendibile della libertà religiosa di cui gode una società è la possibilità di disobbedire alle autorità religiose che essa assicura: i grandi campioni della libertà religiosa, da Erasmo a Giordano Bruno, da Galileo e Spinoza a Locke, sono stati essi stessi dissidenti religiosi, spesso perseguitati. Dunque non il riconoscimento delle comunità religiose ma il dissenso nei loro confronti è un segno di salute di un ordinamento liberale e un indice della laicità di un ordinamento. Le società pluralistiche e tolleranti conoscono oggi un grado elevato di disobbedienza religiosa, che spesso si accompagna al senso di appartenenza alle comunità religiose e alla condivisione delle credenze puramente speculative. Le disobbedienze più significative si sono verificate nel campo dei comportamenti sessuali, procreativi e sanitari, campi nei quali le religioni intervengono con maggiore frequenza, anche perché sono quelli nei quali si configurano veri e propri tabù. Invece le religioni sono quasi del tutto assenti in quella che spesso è chiamata “etica pubblica”, cioè nell’escogitazione di modi che rendano più elevato il grado di legalità, correttezza nelle relazioni interpersonali, trasparenza amministrativa ecc., anche perché spesso le stesse organizzazioni ecclesiastiche traggono grandi vantaggi dalle scorrettezze amministrative, che tendono a giustificare, invocando l’importanza dei fini per i quali vengono praticate.

In una società laica le religioni devono essere tutelate in quanto sono liberamente esercitate da individui. I diritti religiosi e la libertà religiosa si collocano entro le libertà individuali e vanno tutelate soltanto finché non pregiudicano le libertà di cittadini che non praticano nessuna religione o che intendono disobbedire alle autorità religiose di qualsiasi tipo. Il laicismo ha l’abitudine di imporre a se stesso l’obbligo di professare rispetto per le convinzioni religiose e per le autorità religiose. Per un certo verso è una massima ovvia in un paese liberale, pluralista e tollerante, soprattutto perché meritano rispetto sia i cittadini che praticano condotte legali sia le autorità che i cittadini liberamente riconoscono. Ma il rispetto non deve essere confuso con l’ossequio, soprattutto con un ossequio reso a certe autorità religiose e non altre o ad autorità religiose e non a persone di prestigio che non si richiamino a nulla che abbia un qualche significato religioso. Inoltre il rispetto esige la reciprocità, cioè deve tener conto del rispetto che le autorità religiose sono disposte a tributare alle autorità dalle quali lo esigono. Spesso le agenzie religiose assumono atteggiamenti aggressivi sia nelle loro relazioni reciproche sia nei confronti delle autorità politiche o dei singoli cittadini e arrivano a negare a chi si sottrae alla loro giurisdizione il credito di una minima moralità. Non c’è nulla di scandaloso e va ammesso il loro diritto di predicare in nome di un potere, eventualmente soprannaturale, che non tutti riconoscono.

La cultura laica dovrebbe però trovare il coraggio di ribattere all’aggressività religiosa denunciando, oltre alle pretese delle chiese di imporre le proprie regole anche a chi non le riconosce, anche le vere e proprie falsità delle quali son pieni i testi ai quali si rifà il loro insegnamento. Spesso la critica viene esaltata come una buona prestazione cui gli intellettuali sono tenuti e i filosofi sono i primi ad accappararsi questo compito, fin quasi a ridurre tutta la loro attività all’esercizio della critica di ogni altra forma di prestazione intellettuale. Di fatto i filosofi sono tutt’altro che esigenti in fatto di critica e tra loro si trovano i creduloni più indifesi. Invece occorre riprendere un’antica tradizione e dire con franchezza quali imposture contengano l’Antico e il Nuovo Testamento, come il Corano e tutte le tradizioni nate intorno a questi libri.

Che sia il momento di stabilire un nuovo rapporto, di resistenza, nei confronti delle agenzie religiose risulta anche dal fatto che esse hanno scelto un nuovo registro per i loro messaggi. Tradizionalmente le credenze religiose avevano subito la concorrenza del sapere scientifico: già la filosofia della natura aristotelica e la cosmologia tolemaica avevano costituito una difficoltà per le religioni bibliche. Ma esse non avevano ancora finito di adattarsi a queste novità quando dovettero affrontare la sfida copernicana. Il cattolicesimo ha da poco chiuso i conti con questa sfida, o ha preteso di averli chiusi, celebrando una finta conciliazione con Galileo; ma, nel momento in cui celebrava questa conciliazione, papa Giovanni Paolo II proclamava la propria sovranità sulle scienze biologiche, dichiarando che la vita dipende dall’anima, superiore alla competenza di qualsiasi biologo. Il papa si riferiva non alle teorie biologiche, ma ai riflessi etici che la biologia poteva avere, aumentando i gradi di libertà dei comportamenti umani. Anche nel campo protestante si delineava un conflitto sul fronte biologico, ma questa volta erano in gioco le teorie. Fin dalla sua comparsa la teoria dell’evoluzione aveva suscitato l’opposizione delle professioni religiose, ma Pio XII aveva assunto una posizione conciliante sostenendo che essa non era inconciliabile con il racconto biblico. Un papa tutt’altro che illuminato aveva preso una decisione rivoluzionaria, senza rendersene conto, perché di fatto aveva assegnato alla Bibbia un valore puramente simbolico e ne aveva autorizzato una lettura allegorica, riservando la verità alla teoria scientifica. Ciò poteva avvenire perché la Chiesa cattolica aveva sempre dato un valore modesto ai testi sacri, sui quali aveva fatto prevalere l’interpretazione ecclesiastica: dunque il papa aveva esercitato un potere esegetico che si era da sempre riservato. Per i protestanti le cose non erano così semplici e le chiese fondamentaliste, fedeli alla lettera della Scrittura, non potevano riconoscere la verità letterale della teoria scientifica e il valore puramente allusivo della Bibbia.

Le chiese si sono così avventurate su un terreno infido perché, anziché far valere la distinzione tra scienza e fede, hanno preteso di mettere il proprio insegnamento in competizione con quello degli scienziati, nei campi nei quali è stata di solito riconosciuta la loro autonomia. Così i fondamentalisti protestanti pretendono che al racconto biblico sia attribuita la stessa dignità della teoria dell’evoluzione e il papa di impartire direttive che i governanti dovrebbe imporre a tutti, perché dettate dalla pura ragione. I primi collocano la disputa sul piano della verità, convinti che ci siano ragioni per ritenere che il mondo risponda a un piano divino, mentre il secondo, pur vantandosi di aver accesso a una realtà soprannaturale dominante rispetto a quella naturale, preferisce riferirsi agli aspetti normativi e riservarsi il potere di emanare divieti che pongano limiti sia alla libertà di ricerca sia all’applicazione delle scoperte scientifiche.

La linea di maggior impegno per una cultura che intenda tutelare la laicità della società consiste oggi nella vigilanza lungo i confini della sfera pubblica, per evitare che si infiltrino qui ragioni indebite per l’assunzione di decisioni pubbliche. Questi confini non sono impermeabili e intorno a essi premono istanze di tutti i tipi: ideologie, mode, saperi finti e superstizioni cercano di farsi accettare come fondamenti per giustificare scelte pubbliche, ottenere riconoscimenti, avere finanziamenti, orientare sentenze di giudici e atti amministrativi, imponendosi anche a chi non accetta quei tipi di credenze. Tra gli assedianti ci sono le istanze di carattere religioso, attraverso le quali le agenzie religiose cercano di orientare le decisioni pubbliche, imponendo la propria autorità. La loro azione è più efficace se esse riescono a presentare le proprie indicazioni come previsioni e suggerimenti neutrali sulla natura e il destino delle società, sulla famiglia, sui comportamenti pubblici e privati delle persone. Il laicismo non ha il compito di vigilare su ogni sorta di intrusione indebita nella sfera pubblica, né deve pretendere di offrire un modello completo di società. Il suo compito specifico consiste nella vigilanza contro le intrusioni del potere religioso, sia mettendo in luce i suoi tentativi di invadere la sfera pubblica in modi che possono sfuggire all’attenzione generale, sia mettendo in luce le falsità incluse nei fondamenti addotti per invocare l’accettazione nella sfera pubblica

Il laicismo non pretende di offrire un modello perfetto e completo di società e di comportamenti pubblici e privati, o un sistema di etica, perché il suo campo specifico è costituito dalla vigilanza nei confronti dei poteri ecclesiastici e la sua funzione più delicata consiste nello smascheramento delle loro pretese. Il suo strumento più efficace è la contrapposizione di modeste verità empiriche utilizzabili nei confronti pubblici alle verità che esigono la condivisione di presupposti arbitrari e non documentabili. Il carattere laico è una delle condizioni perché una società possa essere detta libera; poi una società libera non è di per sé una società perfetta e la libertà può anche non essere considerata una precondizione per la perfezione di una società. Inoltre il laicismo vigila su una delle condizioni che tutelano la libertà, ma ce ne altre che escono dal suo ambito. Nulla vieta che laicisti convinti non siano altrettanto vigili su altre minacce della libertà della società, così come nulla permette di dire che le cose più importanti sono tutte racchiuse nella sfera in cui si collocano le decisioni pubbliche. Nella sfera privata si coltivano speranze e credenze, si fanno scommesse sul futuro, tutte cose nelle quali spesso le persone cercano il senso della propria vita. Il rispetto della sfera privata è importante, perché di qui vengono, insieme con le minacce per i criteri con i quali si assumono le decisioni pubbliche, anche le innovazioni. La tutela della sfera privata va spesso sotto l’etichetta della libertà di coscienza, che ai laici sta a cuore, in quanto da essa devono tenersi alla larga coloro che pretendono di disporre di un potere religioso, anche se nella sfera della coscienza si trova di tutto: convinzioni fanatiche, tabù arbitrari, rifiuto di qualsiasi confronto, insieme con l’esercizio dell’indipendenza di giudizio.

(lectio magistralis, tenuta il 15 marzo 2007, presso L'Università di Torino)

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