Tra le verità chiare ed evidenti per i
credenti figura pure la seguente: non si dà
un’etica senza Dio. Verrebbe fatto di
chiedere quale Dio, essendo Yahweh, Gesù,
Allah autori di imperativi fra loro
inconciliabili; ma è meglio frenare la
curiosità per non cadere nel blasfemo.
Circola da sempre – ed è purtroppo ancora
vivo e vegeto – un pregiudizio infamante che
colpisce inesorabilmente liberi pensatori,
agnostici, non credenti (ma spesso anche
solo diversamente credenti): quello
secondo cui costoro in fondo sarebbero –
poverini, magari inconsapevolmente! –
portatori sani di immoralità, dato che
non hanno alcun “timore di Dio” né, di
conseguenza, una coscienza morale illuminata
e preservata da principi “superiori”. “...
Il mondo politico segue le sue norme e le
sue strade, escludendo Dio come cosa che non
appartiene a questa terra. Lo stesso nel
mondo del commercio, dell’economia e della
vita privata. Dio rimane ai margini. A me
sembra invece necessario riscoprire, e le
forze ci sono, che anche la sfera politica
ed economica ha bisogno di una
responsabilità morale, una responsabilità
che nasce dal cuore dell’uomo e, in ultima
istanza, ha a che fare con la presenza o
l’assenza di Dio. Una società in cui Dio è
assolutamente assente, si autodistrugge. Lo
abbiamo visto nei grandi regimi totalitari
del secolo scorso” (dall’intervista
all’allora cardinale Ratzinger apparsa su
la Repubblica del 19 novembre 2004).
Dunque, attenti ai non credenti! Ragionava
così già Abramo, il più grande e il più
venerato dei patriarchi: è considerato padre
spirituale da Ebrei, Cristiani e Musulmani.
La Bibbia narra che quando egli, durante le
sue peregrinazioni, s’imbatteva in una
comunità dove non si adorava “il Dio di
Abramo”, stava sempre all’erta e temeva il
peggio, perché era sicuro di trovarsi in
mezzo a gente senza scrupoli, disonesta e
debosciata (cfr. Genesi, capp. 12,
20, 26). Contro ogni evidenza, Abramo (proprio
un pluralista ante litteram!)
coltivava l’assurda prevenzione che presso i
popoli di diverso orientamento religioso non
poteva che regnare la dissolutezza mista
alla violenza. L’arrogante patriarca
giudicava a priori impossibile che si
conoscesse la giustizia, la responsabilità,
la decenza, la legge, l’ordine e la morale
anche al di fuori del suo gruppo. (Eh sì, la
stolida presunzione di superiorità – etnica,
morale, spirituale – non è solo appannaggio
dei nostri tempi!) Più di una volta dovette
ricredersi; ma poiché non ne seguì autentico
ravvedimento, il gene di quel pregiudizio
non fu “disattivato”, anzi venne trasmesso
ai discendenti (vicini e lontani), essendo
il patriarca riconosciuto come “il padre di
tutti i credenti” (così è chiamato da san
Paolo nella Lettera ai Romani, cap.
4, v. 16).
Una cosa è tragicamente vera: né l’amore per
Dio né la credenza nel fuoco eterno hanno
mai impedito in passato (o sembrano impedire
nel tempo presente) a coloro che li
professano entrambi di concepire e compiere
i delitti più esecrabili. “Noi siamo
cresciuti in una società che ha come modello
morale il Vangelo con i valori del Discorso
della montagna: beati i poveri di spirito, i
miti, coloro che piangono, coloro che hanno
fame e sete di giustizia, i misericordiosi,
i puri di cuore, i pacifici, i perseguitati
a causa della giustizia. A cui vanno
aggiunti i comandamenti: ama il prossimo tuo
come te stesso, ama il tuo nemico. (...)
Nell'Europa cristiana non c'è stata gente
migliore che in altre civiltà” (così
Francesco Alberoni sul Corriere della
Sera del 19 settembre 2005). Eppure si
ripropone la tesi che solo chi crede in Dio
rispetta la vita (ma cosa non è stato fatto
e non si fa proprio in nome di Dio!); e alla
domanda: “In cosa crede chi non crede?”
molti credenti (non tutti per fortuna)
continuano a rispondere con sicumera: “Ma
in nulla! Se Dio non esiste (o è morto),
allora tutto è possibile, opinabile, lecito…
Non ancorati a Dio, il valore della vita e
la dignità umana restano senza fondamento…”.
Un uomo e credente d’eccezione come Albert
Schweitzer ha affermato invece: “Se domani
giungessi alla conclusione che Dio non
esiste, e che non esiste l’immortalità, e
che la morale non è che un’invenzione della
società (…) ciò non mi turberebbe affatto.
L’equilibrio della mia vita interiore e la
consapevolezza del mio dovere non ne
sarebbero intimamente scossi. Riderei di
cuore e direi: Sì, e allora? (…) Questo mi
riempie di sereno orgoglio” (Lettere
1901-1913). Di più: “Quando il pensiero si
inoltra per la sua strada, deve essere
preparato a tutto, anche ad arrivare
all’agnosticismo [Nichterkennen]. Ma
se anche la nostra volontà d’azione fosse
destinata a combattere una lotta senza fine
e senza successo con una concezione
agnostica del mondo e della vita, questa
dolorosa disillusione sarebbe pur sempre
preferibile alla rinuncia a pensare. Poiché
questa disillusione significa già
purificazione [Läuterung]” (Kultur
und Ethik). Mi lascia ben sperare il
fatto di vedere riprodotte e apertamente
valorizzate su un’autorevole rivista
teologica (Protestantesimo, n.
3/2002 – pubblicata dalla Facoltà Valdese di
Teologia) queste e altre fondamentali
affermazioni di Schweitzer.
Il pregiudizio ostacola l’ascolto,
l’apertura verso gli “altri”. Nessuno è
scevro di pregiudizi. Ma il Libero Pensiero
costituisce un presidio senz’altro efficace
contro di essi.
Michele Turrisi