Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno"

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Piergiorgio Welby: il recupero del tragico

di Maria Mantello

 

“La mia storia –aveva scritto Piergiorgio Welby- è simile a quella di tanti altri distrofici.
Ricordare come tutto sia iniziato non è facile perché la memoria non è accumulazione ma selezione e catalogazione. Forse fu una caduta immotivata o il bicchiere, troppo spesso sfuggito di mano etc. ma quello che nessun distrofico può scordare è il giorno in cui il medico, dopo la biopsia muscolare e l'elettromiografia, ti comunica la diagnosi: Distrofia Muscolare Progressiva”. Ha  18 anni Piergiorgio Welby, quando nel 1963 i medici gli accertano questa malattia genetica. Sembra abbia ancora pochi anni di vita. Ma le cose vanno diversamente. Così il ragazzo continua a vivere e a soffrire. Dalle difficoltà di presa, fino all’irrigidimento delle gambe, che si verifica nel 1980. Ormai  Welby non si fa più nessuna illusione. Comincia ad attendere la crisi respiratoria che lo soffocherà. E ai familiari dichiara di non voler essere intubato. Ma quando Mina, sua moglie, vede che al marito manca il respiro, lo porta in ospedale. Così Piergiorgio si trova attaccato ad un respiratore artificiale.

Paralizzato, con la vita appesa a quel tubo che lo tortura, comunica attraverso il computer il suo dolore al mondo. Scrive anche un libro “Lasciatemi morire”, dove, attraverso la sua drammatica vicenda fa riflettere sul senso della vita e della morte. Al di là di anestetizzanti proiezioni. Siano quelle del regno dei cieli. O quelle dell’edonismo rampante. Welby riflette sul senso della vita e della morte recuperando la dimensione tutta umana del tragico: “Forse la «colpa» è del cristianesimo che, sottraendo la morte all’irreparabile dell’individualità che non torna per ridurla a peccato-morte-resurrezione, ha liquidato definitivamente il tragico. Oppure è il riflesso pavloviano di chi non vuole ammettere che l’eutanasia non è «una battaglia ideologica dei sani», ma una possibilità di cui gli uomini, o meglio «i mortali» (nel senso greco del termine) non possono fare a meno perché, come scrive Euripide nelle Troiane: «Il non nascere – dico – è uguale al morire, ma è meglio morire che vivere nel dolore».

Un lucido tragico grido che scuote le coscienze e che richiama lo Stato al suo ruolo di civile legislatore: “in Italia, ci si ostina a non voler dare una risposta a questa domanda: «C’è un diritto alla morte così come c’è un diritto alla vita?». (...) “La morte, o meglio, la volontà di affrontare i problemi che accompagnano la fine della vita, è la grande assente dalle nostre coscienze” (…) “Ci vorrebbero silenziosi, ci vorrebbero costringere in un ruolo che non ci appartiene, ma noi ci faremo sentire, parleremo con le impersonali voci sintetiche offerteci dalla tecnologia, chiederemo, chiederemo, chiederemo… fino a quando, se non l’assordante silenzio di Dio, cesserà almeno l’ingiustificabile silenzio dell’Uomo. Com’è difficile vivere e morire in un Paese dove il Governo fa i miracoli e la Conferenza episcopale «fa» le leggi”.

Militante radicale e membro dell’associazione Luca Coscioni, fin dal 2002 Welby ha dato il  suo volto alla battaglia contro l’accanimento terapeutico e per l’eutanasia. Perchè ognuno possa essere proprietario di se stesso sempre. E per questo sarà soprattutto ricordato.

A breve, a causa della paralisi progressiva sarebbe stato necessario inserire chirurgicamente nel suo corpo un altro tubo: per nutrirlo. Lui non lo voleva. I suoi familiari, con l’assistenza di un medico anestesista di Cremona, il 20 dicembre hanno messo fine alla sua tortura.

 

maria mantello

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