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Laicismo
significa:
di Felice Mill Colorni
Nel comune linguaggio politico, culturale ed
giornalistico dell’Italia di oggi vengono definiti laici:
1) i fedeli che non sono sacerdoti consacrati come tali dalla Chiesa
romana (o dalle altre Chiese, ortodosse e anglicane, che si basano
sull’idea della “successione apostolica”);
2) tutti i non credenti;
3) gli atei e/o gli agnostici;
4) coloro che professano una filosofia che respinge presupposti
dogmatici basati su verità rivelate;
5) gli appartenenti a partiti non confessionali (sottovariante a: di
centro; sottovariante b: di sinistra);
6) i fautori della neutralità delle istituzioni pubbliche rispetto alle
convinzioni religiose, ideologiche o culturali (o almeno rispetto a
tutte quelle convinzioni che non mettano in discussione l’uguale libertà
di espressione di tutte le altre);
7) i fautori della secolarizzazione, intesa come esaurimento, oppure
come espulsione, di ogni e qualunque presenza pubblica delle confessioni
religiose (la seconda accezione può comportare il divieto di ostentarne
i simboli anche per gli individui che operano o semplicemente si muovono
entro le istituzioni pubbliche);
8) gli anticlericali, a loro volta intesi come
a) coloro che detestano le fedi religiose, e/o propugnano attivamente
l’ateismo e/o l’agnosticismo, oppure
b) coloro che si oppongono al clericalismo;
9) i membri non togati del Csm (ultima sopravvivenza, questa, del
significato di “non appartenente a una particolare professione” o “non
specializzato in una particolare disciplina”, per altri versi ormai
desueto, come l’antiquato significato di “incolto”).
Il termine “laicista”, a sua volta, viene usato per lo più polemicamente
dai cattolici come sinonimo dei significati 7) – in genere ritenuto
inevitabile conseguenza del 6 – e 8a), e da chi lo rivendica per sé per
lo più come sinonimo dei significati 6) e 8b).
Questa babele di concetti (quando i termini impiegati corrispondono a
scelte consapevoli) discende ovviamente, oltre che da contingenti
condizionamenti legati al dibattito politico, anche da tradizioni
culturali diverse. Non solo, com’è ovvio, da quella cattolica e da
quella liberale (e democratica, e socialista), ma anche da tradizioni
“laiche” o religiose fra loro diverse.
Miscredenti clericali e credenti laicisti
Ad evitare inutili confusioni, bisognerebbe tenere rigorosamente
separati i significati che pertengono alla sfera dell’etica pubblica e
della politica e quelli relativi invece ai convincimenti personali e
religiosi. Non tutte le tradizioni religiose giocano nello stesso campo
e nella stessa direzione; e da sempre e oggi più che mai, vi sono
correnti politiche e culturali antilaiche o apertamente clericali,
animate da miscredenti, che assegnano alle tradizioni religiose un ruolo
strumentale di supporto a istanze geopolitiche, etnico-nazionalistiche,
tradizionalistiche, d’ordine o moralistiche, a cui la fede religiosa
rimane completamente estranea (in modo talvolta colto e talvolta
straccione, costoro ripropongono, per i cittadini italiani del 2006, né
più né meno quel che Giovanni Gentile proponeva per i bambini e per gli
analfabeti). La stessa tradizione laica e laicista occidentale è stata
in origine un frutto, prima ancora che del pensiero illuminista, di
sviluppi interni ad alcuni specifici settori della tradizione religiosa
cristiana riformata. È ad essi che risale la messa in questione
dell’idea stessa di una religione stabilita dallo Stato e l’affermazione
della libertà di culto per chiunque fosse disposto a rispettare l’altrui
pari libertà, già un secolo prima della nascita e dell’affermazione del
pensiero dei lumi (anche per i non cristiani, come gli ebrei). Del
resto, anche a rimanere allo scenario italiano di questi anni, è facile
constatare come ben poco rimarrebbe delle battaglie laiche degli ultimi
anni, se se ne dovesse escludere l’apporto di protestanti, ebrei e
cattolici critici.
Per quanto possa apparire vano proporre di rimettere in discussione
abitudini linguistiche ormai abbastanza consolidate, la stessa
distinzione fra laicità e laicismo dovrebbe assumere in quest’ottica un
significato diverso e in certo modo opposto a quello corrente. Se
l’aggettivo “laico” denota una condizione di fatto, quella cioè di uno
Stato o di istituzioni neutrali rispetto alle diverse convinzioni
religiose, filosofiche e culturali, e come tali garanti della loro pari
libertà e dignità e dell’assenza di privilegi o di discriminazioni,
coloro che propugnano il raggiungimento di un tale risultato non
potranno certo dirsi a loro volta “laici”, se non con la consapevolezza
che in questo caso la parola ha tutt’altro significato. Essi potrebbero
infatti essere, soggettivamente, tutt’altro che neutrali rispetto alle
diverse confessioni, ed essere invece convintamente appartenenti
all’una, all’altra o a nessuna. Se essi intendono rendere laiche le
istituzioni, che a loro giudizio non lo sono o non lo sono abbastanza,
come altro definirli se non “laicisti”? Si noti che, in questa
accezione, diversamente che nell’uso ormai polemicamente invalso,
soprattutto da parte cattolica, il “laicista” potrebbe addirittura
spesso non essere affatto areligioso o antireligioso, a differenza del
“laico” (almeno se si volesse continuare ad utilizzare quest’ultimo
termine anche come sinonimo di “non credente”). Se infatti, sul piano
dei convincimenti personali, si dovesse considerare «laico l’uomo di
ragione, credente l’uomo di fede» (Bobbio), il “laicista”, cioè il
propugnatore di istituzioni pubbliche laiche, potrebbe invece essere
qualcuno addirittura motivato dalla propria fede religiosa, oltre e
prima ancora che dalle proprie convinzioni civili, ad assicurare alla
propria e alle altrui confessioni religiose uno status giuridico di
uguale libertà e dignità sociale rispetto alla confessione socialmente o
tradizionalmente dominante (se non addirittura attivamente impegnata a
perseguire la discriminazione o la persecuzione delle minoranze
religiose o sociali ad essa estranee, o critiche nei suoi confronti).
I dogmi indeboliti dei credenti aggiornati e i postulati
convenzionali della ragione debole
Se il significato tradizionale mantiene il suo valore con riferimento
alle gerarchie vaticane e ai cattolici più allineati (e, ancor più, ai
fondamentalisti di ogni confessione), rispetto ai laici di convinzioni
liberali, tale distinzione male si presterebbe, per esempio, a
classificare la maggior parte degli intellettuali contemporanei
appartenenti alle altre due tradizioni religiose autoctone dell’Europa
occidentale, protestanti ed ebrei credenti. Non esistendo all’interno di
queste confessioni religiose una gerarchia autoritaria titolata, come
quella romano-cattolica, a parlare almeno ufficialmente a nome di tutti
i singoli componenti e a vincolarne le coscienze, i presupposti
“dogmatici”, in questo caso, si riducono spesso, nella società
secolarizzata, dopo due millenni di dispute fra diverse scuole di
pensiero e due secoli di pressioni assimilazioniste su un versante, e
dopo cinque secoli di “libero esame”, due di “teologia liberale” e
sessant’anni di ermeneutica della “demitizzazione” sull’altro, a un
nucleo così limitato di postulati, da rendere le convinzioni religiose
di costoro difficilmente qualificabili come molto più “dogmatiche” della
maggior parte delle convinzioni intellettuali che sono abituale
patrimonio “presupposto” dei non credenti.
Analoghe sono ormai le posizioni di molti cattolici, che si definiscono
tali senza troppo badare alle prescrizioni e alle teologie ufficiali del
Vaticano, ma solo perché cristiani nati in un paese di tradizione
cattolica, e che condividono molte posizioni culturali ed etiche
fondamentali tipiche del mondo protestante piuttosto che della
gerarchia, anche se trovano inutile o scomodo ammetterlo. Se è lecito
avanzare rispettose riserve sulla scelta di qualificare le proprie
convinzioni religiose sulla base dell’identificazione con una tradizione
comunitaria di tipo “etnico”, dal punto di vista delle ricadute civili e
politiche la rottura si è da tempo consumata nei fatti, e sedimentata in
una sorta di inespressa estraneità reciproca, almeno culturale e civile.
Purtroppo la sordina che una sorta di ecumenical correctness
teologica sembra imporre alle differenze denominazionali concorre ad
appiattire tutte le posizioni culturali dei credenti sull’immagine
trionfalistica della Chiesa romana: mettendo in ombra quella forma
declericalizzata di cristianesimo che, con la Riforma, è alle radici
della modernità occidentale e che si contrappone (in modo ovviamente non
lineare, come sempre nella storia) a quella versione coerentemente
autoritaria della stessa tradizione cristiana che è il cattolicesimo
romano. Se così non fosse, o se almeno l’esposizione mediatica del Papa
e della gerarchia non impedisse di vedere nelle Chiese della Riforma
un’espressione altrettanto autorevole (e culturalmente più autorevole,
perché intellettualmente libera) della cultura teologica europea, non ci
si sognerebbe di considerare come portato necessario della fede
religiosa le posizioni retrive che, anche e soprattutto in materia di
etica privata e pubblica, sono invece patrimonio tipico e
sostanzialmente esclusivo, nell’Europa occidentale contemporanea, della
Chiesa romana.
E non è certo un caso che, da decenni, su pressoché tutte le questioni
che dividono in Italia i “laici” dai cattolici, la posizione dei
protestanti storici e quella della maggior parte degli ebrei civilmente
impegnati sia stata quasi sempre consonante con la posizione dei “laici”
anziché con quella dei cattolici ufficiali. Così è accaduto, attraverso
i decenni, su argomenti come il regime concordatario, il finanziamento
della scuola confessionale, la contraccezione, il divorzio, la
regolamentazione giuridica dell’aborto o dell’eutanasia, la bioetica, le
famiglie di fatto, i diritti civili degli omosessuali, la libertà della
ricerca scientifica, l’etica proibizionista. L’ispirazione cristiana o
ebraica non ha affatto portato questi credenti agli approdi politici
antimoderni e autoritari tipici del magistero cattolico.
L’attribuzione della qualifica di non laici ai credenti e di laici ai
non credenti presuppone in realtà che i primi vengano identificati con i
cattolici romani ortodossi e allineati (il che già contrasta con
l’emergere del modello del cattolicesimo “fai da te” evidenziato da
decenni da ogni indagine sulla religiosità degli italiani e più in
generale degli europei occidentali, prima ancora dell’emergere del
fenomeno più consapevole dello “scisma sommerso” cui si è già
accennato); e che ai secondi si attribuisca una concezione univoca e
“forte” dell’idea di “Ragione” che gli sviluppi prevalenti del pensiero
filosofico del Novecento hanno eroso fino a dissolverla.
Tra l’altro, questo schema pone nelle mani dei polemisti clericali
un’arma di non poco conto, dato che essi potranno agevolmente
argomentare che, logoratasi l’idea forte di una Ragione capace di
autofondarsi, la distinzione fra chi presuppone e chi non presuppone
dogmi o postulati è ormai largamente opinabile e sfilacciata: quindi
breve e agevole sarebbe oggi il salto verso la fede identificata con il
clericalismo papista, dimostratosi capace meglio di ogni altro di
impersonare e salvaguardare la tradizione occidentale. Di più, questa
concezione si presta molto bene a fornire ai polemisti clericali il
pretesto per avvalorare un’immagine caricaturale dei loro avversari,
un’immagine in cui liberali e marxisti, giacobini e girondini, idealisti
e positivisti, razionalisti e sostenitori del pensiero debole, pensatori
analitici e continentali, comunisti e liberisti, vengono tutti
accomunati (come all’epoca della Restaurazione o del Sillabo), in
un’unica catena caratterizzata dal necessario susseguirsi di errori
conseguenti all’abbandono della docile soggezione alla materna guida
della gerarchia cattolica e della sua concezione della trascendenza, in
nome di un’arrogante “onnipotenza della Ragione” – di una Ragione
destinata a corrodere e a minare alla base anche i propri stessi
fondamenti. Di qui, per esempio, l’ascrizione a un’univoca discendenza
“laicista” del terrore giacobino e del persecutorio ateismo di Stato dei
regimi comunisti. Di qui la convinzione di avere sostanzialmente vinto,
e chiuso la partita, almeno sul piano dei principi, con il crollo del
comunismo, visto come manifestazione di “laicismo”, e anzi come sua
manifestazione massima e finale. Quando invece i laici e i laicisti
liberali hanno sempre visto in tali regimi e correnti di pensiero
caratteristiche dogmatiche e chiesastiche che riprendevano, portandoli
alle estreme e più violente conseguenze, le mentalità, la coartazione
delle coscienze, il culto dell’uniformità di pensiero, lo stile di
comando, l’intolleranza e talvolta anche alcune idee-forza, delle
antiche Chiese.
Un conflitto di valori etico-politici
La distinzione fra laici e non laici non può quindi essere ricercata
nella fede religiosa o nella sua assenza, bensì in un contrasto di
valori che divide non già credenti e non credenti, ma liberali e
autoritari: coloro che ritengono lecito imporre a tutti, con la forza
della legge, comportamenti conseguenti alle proprie convinzioni
religiose o filosofiche e coloro che invece ritengono che non sia
compito delle istituzioni pubbliche imporre un’etica di Stato; e che si
imponga quindi una buona dose di self-restraint da parte del legislatore
nelle materie eticamente controverse, su cui non può essere raggiunto un
minimo comun denominatore condiviso dalla generalità dei consociati.
Anche, naturalmente, se tale etica venga contrabbandata come “naturale”:
idea di radicale inconsistenza storica, sociologica e antropologica, che
però sembra ormai essere divenuta il solo articolo di fede
ossessivamente riproposto e il solo oggetto delle prese di posizione in
materia di etica pubblica delle gerarchie cattoliche e dei cattolici
ortodossi; idea tanto poco universalmente condivisa – come aspirerebbe
ad essere – da essere rigettata non solo dalla maggior parte dei non
credenti, ma anche dalla maggior parte delle altre Chiese cristiane
dell’Europa occidentale, che tra l’altro non le riconoscono neppure il
minimo fondamento scritturale. Eppure, per i media italiani, per i quali
le minoranze religiose autoctone culturalmente non esistono, le
questioni assunte a paradigmatiche della contrapposizione fra “credenti”
e “non credenti” sono proprio quelle attinenti alla predicazione
cattolica della pretesa “morale naturale”.
Il richiamo a un contrasto di valori potrà apparire problematico a chi
veda nel laicismo la conseguenza politica di visioni del mondo incapaci
di conferire alle scelte etiche un senso e un orientamento – e tanto più
a chi lo veda naturalmente fondato su una concezione filosofica
“debole”, oltre che priva di riferimenti a qualunque forma di
trascendenza. Il punto è che una concezione liberale del laicismo, quale
che sia la concezione filosofica o religiosa che la motivi, non può
comunque fare a meno di una consapevole scelta di valori che ne
determina alla fin fine la plausibilità e la persuasività: una scelta in
favore della libertà degli individui e contro la pretesa di imporre loro
un’etica e una verità di Stato, o di riconoscere a una convinzione
religiosa una dignità superiore alle altre.
Tale scelta liberale può essere motivata dalla fede religiosa, oppure da
una concezione “forte” di una Ragione che si ritenga capace di
autofondarsi, oppure ancora da una scelta etica coscientemente
soggettiva, compiuta da chi sia consapevole della infondabilità
oggettiva e del carattere sempre alla fine condizionato e soggettivo –
per quanto argomentato, per quanto consapevolmente radicato in una
storia e in una tradizione civile – di ogni scelta etica controversa
nell’epoca del “politeismo dei valori”.
Complessi di inferiorità e cupidigia di servilismo
Purtroppo, nell’Italia dell’ultimo quindicennio, non solo ai liberali
immaginari della destra, ma anche a molti fra quelli altrettanto neofiti
della sinistra, orfani non solo del comunismo ma anche della
socialdemocrazia, la Chiesa romana, forte delle certezze medievali del
suo capo, sembra il solo possibile punto di riferimento morale.
Purtroppo non si tratta sempre e soltanto di furbesco opportunismo.
Nei confronti del mondo cattolico si pratica in Italia un
incomprensibile “sconto morale” paragonabile Di fronte alla bancarotta
morale in cui si è ritrovata, a mezzo millennio dalla “Riforma
cattolica”, l'intera società di un paese da allora al 99% di tradizione
cattolica, e per mezzo secolo governato dal partito dei cattolici, ci si
sarebbe dovuti interrogare piuttosto sui rapporti fra tale tradizione, i
suoi “tribunali della coscienza”, e lo stato miserando dell'etica
pubblica. Invece non solo i vescovi non si sono sognati neppure di
chiedere perdono al paese, se non al loro Dio, per avere così
direttamente concorso al disastro con le loro direttive e le loro
indicazioni: un gigantesco complesso di inferiorità da parte dei
“laici”, paragonabile a quello da molti nutrito trent'anni fa nei
confronti della cultura marxista, ha spinto Giuliano Amato a chiedersi
ripetutamente perché in Italia la morale kantiana non abbia funzionato e
la Chiesa cattolica sì. Che Kant non abbia funzionato proprio perché vi
faceva ostacolo la tradizione controriformista, non sembra ipotizzarlo
nessuno.
Quanto alla “capacità di amare”, che segnerebbe una distinzione quasi
antropologica fra cattolici e non cattolici, per quel che riguarda ciò
che vi è di tipico e peculiare nell’insegnamento morale ufficiale della
Chiesa romana, vi è da chiedersi se questa vada ricercata nel
costringere una donna, magari addirittura violentata, a partorire un
figlio non voluto (o quanto meno nel costringerla ad abortire per via
chirurgica anziché per mezzo di una pillola), nel rendersi complici
(assecondando idiosincrasie futili e superstiziose nei confronti dei
mezzi di prevenzione) del dilagare di epidemie, sovrappopolazione, fame
e rovina del pianeta, nel contrastare o discriminare, soprattutto nei
momenti più tragici della vita, gli affetti e i legami interpersonali
che siano incoerenti con i principi e le direttive di una confessione
religiosa, nell’etica proibizionista sostanzialmente indifferente alle
sofferenze degli ammalati, nel procrastinare all’infinito l’agonia dei
morenti, nell’ostacolare la ricerca scientifica volta a sconfiggere
malattie gravissime e invalidanti in nome della sacralità degli zigoti –
o in nome del proprio orgoglio ideologico e confessionale.
Non una disputa filosofica, ma una rivolta liberale contro la
prepotenza e l’arroganza clericale
È in nome della “fede nella libertà” dell’individuo come sola possibile
condizione di sviluppo morale e civile, in nome di questa persuasione
etica e politica liberale, che sottrae il laicismo politico all’accusa –
o all’aspirazione quietista – dello scetticismo e dell’agnosticismo
morale o etico-politico, che si giustifica pienamente la sua pretesa di
contrapporsi civilmente e democraticamente all’opposta pretesa clericale
di imporre con la forza della legge i comportamenti prescritti da una
confessione religiosa che si ritiene ancora titolata a dominare sulle
coscienze altrui e a discriminare chi non ne condivida opinioni,
convinzioni, valori e insegnamenti.
I laici, o, come qui si propone di definirli, i laicisti di oggi, si
oppongono semplicemente a una rinata tracotante volontà di dominio sulle
vite altrui, non intendono sottomettersi a comandi arbitrari, rifiutano,
se non la tirannide della maggioranza, la prepotenza di chi vuole
imporre con le leggi la propria egemonia (tra l’altro, senza essere più
neppure maggioranza, come la “Civiltà cattolica” ha ammesso fin
dall’ottobre 1983), vogliono garantire diritti fondamentali, si
oppongono a discriminazioni odiose, respingono l’idea che i genitori
abbiano diritto di vita e di morte culturale sui propri figli, rifiutano
l’arrogante pretesa di prelevare coattivamente dalle tasche dei
contribuenti i fondi necessari a sostenere le attività di una Chiesa di
cui non si fa parte o diversa dalla propria, e magari ostile alle
proprie più profonde convinzioni – e ciò solo perché la fede dei
romano-cattolici ligi alle indicazioni del Vaticano non è evidentemente
sufficiente a far porre loro mano al portafoglio nella misura ritenuta
necessaria ai suoi bisogni dalla gerarchia. Perché mai i laici o i
laicisti non dovrebbero poter rispondere al revanscismo clericale con
contrapposti argomenti anti-clericali – cioè contrari al clericalismo,
non alla o alle fedi religiose?
I laici intesi come liberi pensatori, come persone che respingono
convinzioni dogmatiche (se proprio si vuole conservare l’uso anche di
questa accezione del termine), potranno anche dubitare scetticamente di
tutto, e spingersi fino alla completa atarassia; ma perché i laicisti,
intesi come cittadini che hanno compiuto determinate scelte
etico-politiche, dovrebbero inibirsi qualunque forma efficace di lotta
politica democratica, in nome del proprio antidogmatismo e del culto dei
propri dubbi? Alla stregua di un tale criterio, ogni forma di lotta
politica, anche contro i peggiori fondamentalismi, dovrebbe essere
terreno riservato solo a chi professa convinzioni e ideologie
altrettanto dogmatiche e intolleranti.
Il laicismo torna ad essere condizione di libertà nelle società
multiculturali
Nelle attuali società multireligiose dell’Europa occidentale, la
questione del laicismo, lungi dal rappresentare una reliquia del
passato, sta acquistando sempre maggiore importanza.
Se infatti, negli ultimi decenni, la relativa evoluzione della Chiesa
romano-cattolica postconciliare poteva far sembrare meno impellenti e
alla fin fine meno drammatici, almeno all’atto pratico, i dilemmi legati
al conflitto fra laici e clericali, non è solo la rinnovata prepotenza
giubilante e revanscista di questa Chiesa che conferisce nuova attualità
al laicismo, ma anche la nuova presenza di tradizioni religiose non
autoctone e talvolta ancor meno disponibili della Chiesa romana a venire
a patti con la modernità politica, con le libertà individuali legate al
processo di secolarizzazione e con i diritti individuali dei soggetti
cui tali tradizioni non riconoscono pari dignità sociale né legittimità
alla protezione giuridica assicurata loro in Occidente (apostati,
minori, donne, omosessuali).
La questione del laicismo è ridivenuta centrale per definire la stessa
identità comune del paese e per stabilire i criteri di integrazione nei
diritti di cittadinanza. Non è più possibile fare del cattolicesimo
romano un elemento definitorio dell’identità nazionale – o addirittura
europea – tale da escludere da una piena appartenenza alla stessa
comunità nazionale i non credenti, gli appartenenti alle minoranze
religiose autoctone (ebrei e valdesi) e gli immigrati non cattolici che
pure ottengano la cittadinanza; e dall’altro si tratta di impedire che
il prezzo da pagare per l’integrazione degli immigrati sia un
riconoscimento e una legittimazione di culture e comportamenti
autoritari e prevaricatori all’interno delle loro comunità e famiglie,
contrastanti con supremi principi costituzionali e con i valori
etico-politici tipici e propri dell’Europa liberale. Come afferma la
Società laica, «la rivendicazione della più radicale laicità delle
istituzioni repubblicane, lungi dal costituire la riproposizione di
antiche e superate divisioni, è la condizione necessaria e primaria
affinché la nuova società multiculturale non si trasformi in un
assemblaggio di microcomunità integraliste e settarie, ostili fra loro o
meramente conviventi nell'attesa d’essere abbastanza forti per
sopraffarsi a vicenda».
Nella società multiculturale, la pretesa clericale di imporre il cammino
a ritroso verso l’imposizione politica dell’agenda etica del
cattolicesimo ufficiale, verso l’impossibile ripristino di legami
sociali garantiti dalla comune adesione a valori religiosi anziché a
valori civici, non può che tradursi alla fin fine, paradossalmente, nel
crollo di ogni minimo comun denominatore di regole e valori di
convivenza civile generalmente condivisi.
L’Italia della cosiddetta “seconda repubblica” è già abbastanza povera
di un comune tessuto di valori civili condivisi, già abbastanza incerta
sulla sua appartenenza culturale all’Occidente liberale e democratico,
per non doverle preparare, in nome del ritorno alle proprie genuine
radici nazionali e popolari, un futuro nelle intenzioni artificiosamente
ricattolicizzato dalla politica, “libanese” o “bosniaco” nei suoi
prevedibili esiti.
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