Cesarina Vighy,
L’ultima estate,
Fazi, 2009, pp. 190, euro: 18.00
“All’inizio, la mia malattia non mi faceva molta
paura... Inoltre il medico mi aveva assicurato che avrei
mantenuto le mie facoltà mentali intatte sino alla fine:
allora la scambiai per una promessa mentre ora capisco
che si trattava di una minaccia”.
Zeta,
questo l’eloquente pseudonimo della protagonista, è
malata di sclerosi laterale amiotrofica. Ha sotto il
cuscino il suo testamento biologico per quando non ce la
farà più a dibattersi tra voglia di farla finita e
“umiliante istinto di sopravvivenza”.
L’esigenza di riappropriarsi di quella parola che la
malattia le ha sottratto, forse l’ha portata alla
scrittura di questo suo primo romanzo, che si snoda in
un continuo gioco proiettivo di rivisitazioni della sua
esistenza tra passato e presente. Uno scavare nella
memoria, passando al setaccio cose e persone, contesti
ed eventi. Senza sconti. Senza edulcorazioni. Senza
moralismi: “Scenderò in quella pozza, ritroverò i
fantasmi dei miei sogni”. E si capisce che quella
rivisitazione è forza vitale. Tanto più importante,
quanto più passata, proprio per recuperarne nella
pienezza affetti e sentimenti. Così come sono. Così come
si sentono. “Patti chiari: non sarà un acquerello,
piuttosto un’autopsia”. Una resa di conti, anche con se
stessa. Un testamento-bilancio di una vita che sfugge,
come gli oggetti che ormai con sempre maggiore fatica
Zeta solleva: “nell’impossibilità di sollevare con una
mano il supplemento illustrato di un giornale”.
Ma sono i pensieri che Zeta solleva e rivolta in un
incessante turbinio, che lei riordina e racconta.
Chiedono spazio! Divengono una distesa dei fatti
concreti. A volte crudi e scomodi. Ma che adesso, di
fronte alla terribile malattia, hanno tutta la dolcezza
dolorosa di un vissuto. E la protagonista li ricompone
con straordinaria capacità affabulatoria. Trama di un
pulsare corporale, finalmente fissato, tra storia e
microstoria. Stanno lì nella pagina scritta. Sono lo
scoglio vitale di una individualità faticosamente
espugnata a fragilità ed incertezze. Al consuetudinario
reiterarsi di perbenismi ed ipocrisie.
Fatti e personaggi, compaiono in sovrimpressioni che non
cedono alle sfumature. E’ il linguaggio cinematografico
del bianco e nero. Senza mezzi toni. Una luce diretta li
inquadra. Prima con la visionaria acutezza di bambina
innamorata del papà, socialista resistente. Poi con
quelli della fragile adolescente, salvata dal buon senso
materno da un matrimonio riparatore. E che per questo,
da Venezia, ripara a Roma, dove nelle strette stanze di
locanda si apre a quell’amore-riconoscimento nel
femminile. Ed ancora l’incontro col ’68, che vaccina ed
impegna, ma che è vissuto, pure nell’esperienza del
femminismo, fuori da ogni omologazione di gruppo. Perché
più forte è sempre la coscienza dell’individuale diritto
alla libertà. Quella laica forza coriacea che permette
alla protagonista di giudicare la realtà con disincanto,
conservando così ancora oggi una radicale voglia di
cambiamento. Pagine di lirismo, pur nell’asciuttezza
dello scritto, ripercorrono le esperienze della
protagonista nel descrivere la sua famiglia d’origine,
quella nuova (un marito, una figlia, i suoi gatti), se
stessa: nella sua passione per il cinema e per i libri,
per un’affermazione professionale, in quel lavoro di
bibliotecaria, che quando lascia per andare in pensione,
sente come uno strappo insopportabile: “fu allora,
secondo me, che il primo neurone si seccò come un ramo
per un’improvvisa gelata di primavera.”
Un libro duro e bellissimo questo di Cesarina Vighy, che
induce ognuno a riflettere sull’immanenza biologica
dell’unica vita che abbiamo a disposizione. E che dà
senso a vita e morte. Che fa riappropriare dei grandi e
sereni affetti della vita. Quelli che danno “anni di
quiete che si potrebbero chiamare anni felici se solo lo
sapessimo”.
Maria Mantello (Lettera Internazionale, n°100).
[ndr. Il 2 Maggio 2010 Cesarina Vighy è venuta a
mancare. Il nostro saluto
qui]