Maarten J. Vermaseren,
MITHRA. Il dio dei misteri
Prefazione di Giancarlo
Mantovani,
Edizioni Ester, Bussoleno
(To)
pp 371.
€ 22.00
Il Mithra di Maarten
Jozef Vermaseren è una grande opera di
sintesi dedicata al più famoso dio
indo-iranico, la cui fama misterica
spopolò nel tardo ellenismo. Nell’esodo
persiano seguito alla dissoluzione
dell’impero achemenide a causa
dell’impresa di Alessandro Magno, il
culto dell’iranico Mithra, trapiantato
in Asia Minore, assunse i lineamenti di
una religione misterica, una religione
di salvezza che prometteva un destino
migliore nell’altra vita, dando all’uomo
la speranza di poter ascendere, dopo la
morte, attraverso le sfere celesti. Una
devozione misterica, che tra il I ed il
III sec. d.C. si diffuse capillarmente
nell’impero romano. Quale propaggine
occidentale di un arcaico culto
indo-iranico, il mithraismo subì una
trasformazione formale, smarrendo
l’originaria fisionomia per assumere i
modi e gli stili tipici dell’ellenismo.
Il libro è arricchito
da un lungo e prezioso saggio
introduttivo del prof. Giancarlo
Mantovani – che dello stesso Vermaseren
fu discepolo – nel quale l’opera del
maestro è aggiornata con approfondimenti
riguardanti le origini e gli sviluppi
del culto di Mithra. La fisionomia
misterica del dio è infatti definita in
relazione ai culti e dottrine che
contribuirono alla sua diffusione
(orfismo, ermetismo, gnosticismo,
teurgia) da Oriente a Occidente.
Le origini del culto mithraico si
ritrovano nei Veda induisti (Mitra) e
nei testi dell’antica religione iranica,
lo zoroastrismo (Mithra), in particolare
nel decimo Yašt dell’Avesta cosiddetto
recenziore (seconda metà del V sec.
a.C.). Nella religiosità iranica Mithra
è il dio dei contratti, e in quanto
tale, si accerta che i contratti vengano
rispettati, mappando il territorio e
punendo chi non li rispetta. Tali
caratteri sono affini a quelli del dio
Varuṇa,
col quale in India Mithra fa coppia (Mitravaruna).
Questi tratti di Mithra appartengono
alla tradizione vedica più antica. Di
conseguenza Mithra, aggirandosi attorno
alla terra per sorvegliare gli impegni
contrattuali, si trasforma in un dio
celeste e quindi in un dio solare.
Inoltre, la missione di punire gli
inadempienti lo muta in un dio
giustiziere e guerriero; mentre la
funzione condivisa con Varuṇa
di apportatore di pioggia, lo trasforma
in un dio creatore di vita, e quindi in
un demiurgo. I tratti fondamentali che
lo renderanno famoso come dio misterico.
In Iran, nei rilievi
sasanidi di Tāq-i Bustān (IV d.C.)
Mithra è nimbato da un’aureola di raggi
solari, col berretto frigio ricoperto di
stelle, e i suoi piedi poggiano su di un
fiore di loto, simbolo del Sole e della
vita. E benché questo motivo
iconografico sia caratteristico più
dell’arte egizia e di quella indiana che
di quella iranica, il suo significato
legato al rinnovamento e alla cosmogonia
sembra abbastanza chiaro.
Il Mithra
che conosciamo dai Misteri è un dio che
sgozza un toro, la cosiddetta
tauroctonia, un atto molto violento
spiegabile secondo il mito vedico del
sacrificio della vacca primordiale.
Mitra lega la vacca per i piedi, poi,
anche se riluttante, la uccide insieme
agli altri dèi. La stessa riluttanza fa
sì che nell’iconografia dei Misteri il
dio distolga lo sguardo mentre il suo
pugnale fende la gola del toro. Qualcosa
di simile si poteva vedere nella
rappresentazione del sacrificio di
Ifigenia attribuita a Timante, dove
Agamennone, per non assistere
all’uccisione della figlia, di cui era
cosciente, si copriva il capo.
Il soma in India – l’haoma
in Iran – è, insieme, il latte della
vacca primordiale e il liquido seminale
del toro primordiale, in quanto entrambi
lo hanno assimilato mangiando la pianta.
Così il sacrificio si conferma come un
atto cosmogonico, tanto più che il toro
è assimilabile alla Luna, astro
fecondante.
Nella parte finale del
Bundahišn iranico (cap. 34 [Anklesaria,
p. 226, 3-6]) assistiamo a un episodio
simile, il sacrificio del toro Hatāyōš
da parte del Sōšyans, il Nama Sebesio
dei Misteri. L’haoma (> medio-persiano
hōm) – il cui corrispondente indico è il
soma, materia del sacrificio vedico –
non è solo una pianta misteriosa dalle
virtù palingenetiche, ma anche una
divinità, uno yazata celeste al quale è
dedicato l’omonimo Yašt. Nel tempo molti
studiosi o semplici appassionati hanno
identificato la mitica pianta con
svariati tipi di piante psicoattive e
non, tra cui l’Amanita muscaria e il
Peganum harmala, oggetto di due famosi e
discussi libri. L’haoma nel quadro
cosmologico zoroastriano è il cibo
escatologico preparato dall’ultimo
«Redentore futuro», l’ultimo Saošyant-
(> medio-persiano Sōšyans), la libagione
perenne che fa risorgere i morti e rende
immortali i viventi.
Sempre da un’area di
influenza iranica, l’Armenia, deriva un
racconto epico su di un personaggio,
anche linguisticamente, affine a Mithra,
cioè Mher, un eroe gigantesco che, dopo
aver combattuto tutti i nemici si trova
a combattere anche contro il proprio
padre. Maledetto dai genitori, si reca
sulla loro tomba per implorare perdono e
consiglio. Essi lo invitano a dirigersi
verso una roccia nella pianura di Van.
Lì giunto a cavallo, colpisce con la
freccia un corvo, costringendolo a
rivelargli l’entrata. La roccia si apre,
e all’interno vi trova due fiaccole
eternamente accese (i dadofori dei
Misteri). Il racconto prosegue dicendo
che l’eroe esce dalla grotta solo una
volta l’anno, la notte dell’Ascensione,
per cibarsi della manna che cade dal
cielo, che nutrirà lui e il suo cavallo
per l’intero anno. La missione di Mehr è
quella di sorvegliare ininterrottamente
la sfera del destino, roteante
all’interno della grotta. Quando essa
cesserà di girare, Mher uscirà dalla
roccia per distruggere il mondo.
Parecchi elementi – difficile da
confutare – appartengono alla mitologia
del Mithra dei Misteri.
È credo diffuso che
Mithra giunse a Roma assieme ai pirati
cilici fatti prigionieri. Alcuni di
essi, a quanto pare, diventarono coloni,
integrandosi perfettamente col resto
della popolazione romana e ciò dovette
contribuire notevolmente alla diffusione
del nuovo culto. D’altra parte la nuova
religione non poteva essere accettata a
Roma prima di subire nuove
trasformazioni e integrazioni. Dal
momento che Plutarco (Pompeo, 24) parla
esplicitamente di teletai = «misteri» a
proposito delle cerimonie mithriache dei
pirati cilici, si può dedurre che il
mithraismo arrivò a Roma già sotto
questa forma. Ma non si può escludere
che Plutarco reinterpreti e retrodati il
mithraismo dei pirati.
Esiste infine l’enigma
dei legami tra il mithraismo e gli
Oracoli caldaici, sorta di Bibbia magica
dei neoplatonici di cui ha parlato il
Muscolino nel citato libro sulla
teurgia. Secondo Giorgio Gemisto Pletone,
cui si deve l’unica testimonianza in
questo senso, gli autori degli Oracoli
avrebbero adottato Mithra collocandolo
al posto del secondo intelletto. Giorgio
Gemisto (1355 ca.-1452) cultore di
Platone al punto di voler assumere il
nome di Pletone, che ricorda quello
dell’antico filosofo, è una figura
ancora oggi persa nelle nebbie del mito;
egli ascriveva agli Oracoli una grande
autorità, attribuendone la composizione
al profeta della più antica religione
iranica, Zoroastro (Zarathuštra), e
interpretandoli come fondamento di una
filosofia e di una religione future,
universali, che sostituiranno ogni altra
fede nell’ecumene.
Ezio Albrile