Afghanistan. Se l'Occidente getta la
spugna
Al Qaeda
sta per tornare
di
Bernard-Henri Lévy *
Per Trump era
stato un vagheggiamento. Joe Biden,
invece, l’ha fatto. E un anno dopo
l’annuncio ufficiale, un passo alla
volta, giorno dopo giorno, i 2.500
soldati americani ancora di stanza
in Afghanistan hanno iniziato la
loro ritirata, e con loro — per
obbligo — gli altri contingenti
stranieri della missione Resolute
Support, di cui gli Stati Uniti
erano il pilastro. Le conseguenze
non si sono fatte attendere.
L’annuncio di questa resa
incondizionata, la notizia di questa
partenza priva di gloria, di questo
abbandono inaudito, di questa
disfatta autoinflitta, ha avuto
effetti immediati. Dei capi anziani,
dei malek, hanno fatto subito visita
ai comandanti delle guarnigioni del
Wardak e di Ghazni, a ovest di
Kabul, oppure, quando non sono
riusciti ad arrivare ai comandanti,
hanno telefonato ai loro familiari,
per riferire cose di questo genere:
«I vostri compari se ne sono andati;
l’esercito nazionale afgano non è
più in grado di difendervi; deponete
le armi; saremo clementi». Abbiamo
visto — su una strada che conosco
bene e che unisce Kabul al Panjshir,
ai confini, quindi, del territorio
che fino agli inizi del XXI secolo
fu il feudo del comandante Massoud e
che da qualche anno è diventato
quello di suo figlio Ahmad — la
circolazione bloccata; checkpoint
brutali che impediscono il
vettovagliamento; villaggi presi
d’assalto, tagliati fuori dal mondo;
uomini armati che si presentano alle
autorità locali per dire:
«Arrendetevi; fate i nomi dei
cattivi musulmani che ci sono tra
voi, di chi ama le canzoni, di chi
ha commesso apostasia, delle donne
che si sentono libere; ma,
soprattutto, non temete, perché noi
siamo già così potenti da esserci
infilati con altrettanta potenza in
ogni ingranaggio del potere
nazionale, a tal punto che nessuno,
a Kabul, potrà venire né a
soccorrervi né ad accusarvi di
essere scesi a patti con noi».
Abbiamo visto, nella provincia di
Herat, donne percosse sulla pubblica
piazza e a volte, pare, addirittura
lapidate. Abbiamo visto, a Jalalabad,
80 chilometri a est dalla capitale,
una medica saltare in aria insieme
alla propria auto, dove un gruppo di
islamisti aveva collocato una bomba;
e abbiamo visto due ragazze
giovanissime, che lavoravano per la
tv locale, assassinate, a
bruciapelo, in mezzo alla strada, da
un altro gruppo di jihadisti. Scopro
che a Kabul si rintanano in casa le
adolescenti che avevo filmato appena
sei mesi fa negli stadi di calcio,
nei caffè in cui si mescolavano
ragazzi e ragazze, o che
semplicemente gironzolavano per la
città senza il velo; vengo a sapere
che quei giovani che negli ultimi
anni avevano riscoperto il piacere
della musica ora nascondono i loro
strumenti e cancellano dai loro
laptop le app che servono a
scaricare musica da internet; ricevo
notizia che i giornalisti di Tolo
News, il gruppo privato multimediale
che diffondeva, e ancora diffonde,
ogni giorno, informazione libera,
vivono nel terrore delle esecuzioni
mirate. Sempre a Kabul, ciò che
resta dei servizi di sicurezza
repubblicani sa, e da qualche giorno
tenta di far sapere anche agli amici
dell’Afghanistan libero, che tutti
questi crimini sono opera non di
gruppi fuori controllo ma di cellule
di Al Qaeda e di Daesh talebani, che
attendevano il momento propizio per
uscire allo scoperto — che
significa, in parole povere, che
sanno che i talebani sono già venuti
meno a uno dei rari impegni che
l’America si era illusa avrebbero
rispettato, e che costituirono la
conditio sine qua non per iniziare i
negoziati di Doha, e cioè: se
dovessimo tornare nel giro,
rinunceremmo almeno a fare da base o
a divenire ricettacolo di
organizzazioni che «potrebbero
attaccare di nuovo la patria degli
americani», Joe Biden dixit.
Sappiamo quindi che, esattamente
come vent’anni fa, alla vigilia
dell’11 settembre, Al Qaeda sta per
tornare. Sappiamo che Daesh, in
un’escalation folle, come accadde
nello Yemen o in Pakistan, sta per
contendere il primato della barbarie
ai fratelli nemici di Al Qaeda.
Sappiamo, e tutte le testimonianze
che mi giungono lo confermano, che
sia con l’uno che con l’altra, tanto
con Daesh come con Al Qaeda, nei
villaggi si rinnova lo stesso patto
di sempre con il diavolo: «Voi,
fratelli assassini, ci fornite le
armi; voi formate le milizie che ci
proteggeranno dall’immoralità e dai
vizi; i fondi che spillerete ai
vostri generosi compari che vivono
all’estero scorreranno nelle nostre
campagne; in cambio, vi garantiamo
che in mezzo a noi nuoterete
soddisfatti come pesci nell’acqua e
potrete riprendere comodamente a
ordire le vostre trame di guerra
universale». Il seguito della
storia, purtroppo, è già scritto: e
così le cancellerie occidentali
preparano i bagagli mentre compilano
la lista dei loro collaboratori
locali da sistemare lontano dal
mirino della vendetta; e così,
nonostante tutti scrivano il
contrario, l’esercito nazionale si
sfascerà proprio quando stava per
strutturarsi, all’ombra del
deterrente americano; così certe
menti non impiegheranno molto tempo
a programmare non dico un nuovo 11
settembre ma sì dei nuovi attacchi
che — Dio ce ne scampi —
moltiplicheranno, in Occidente, gli
attentati suicida e le decapitazioni
che, fino a poco tempo fa, si
caldeggiavano tra Raqqa e Mosul. La
Storia, quando è tragedia, si ripete
sempre. Il ragionamento che ha
portato a optare per questa débâcle
è ben noto. È la convinzione — che
Trump e Biden, come ho detto,
condividono — che dalle «guerre
interminabili» si debba «saper
uscire». È il voler mettere nello
stesso sacco la guerra a bassa
intensità dell’Afghanistan e guerre
come quella del Vietnam che
accumulò, in metà tempo, un numero
di morti e dispersi trenta volte più
alto. È un ragionamento assurdo, dal
punto di vista strategico.
Ed è lo stesso ragionamento che, in
sostanza, conferma ciò che era già
stato annunciato ai curdi della
Siria, consegnati a Erdogan; a
quelli dell’Iraq dopo il loro
referendum di autodeterminazione; ai
somali vittime degli Al Shabaab e ad
altri popoli: prostratevi, dannati
della terra; basta geopolitica!;
vedetevela voi con i russi, i
cinesi, gli ottomani, i persiani,
gli islamisti radicali; addio,
mondo.
*
la Repubblica, 3 giugno 2021
Al
Qaeda sta per tornare
(Traduzione di Monica Rita Bedana)