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Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno" |
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COVID 19
Cosa preoccupa?
Ultimamente
dissidi interni sono sorti nelle comunità
scientifiche riguardo il virus e cosa
spaventa nel suo genoma: ovvero ci sono
mutazioni? non ci sono mutazioni? esistono
altri fattori finora non scoperti o
considerati? cosa cambia in proposito? In verità cambia ben poco
da un punto di vista di prognosi la presenza
in se stessa del virus all’interno del corpo
poiché, come per qualsiasi organismo
estraneo all’interno di un altro, non è
tanto la presenza più o meno mutevole che
possa creare problemi, ma il suo
comportamento: se l’organismo estraneo non
causa problemi ed è trasparente al sistema
non rappresenta un fattore di rischio. Per fare un esempio in un
corpo umano abitano migliaia di virus e
specie batteriche ma non tutti sono nocivi,
anzi molti ci aiutano, come quelli presenti
nell’intestino, che proteggono la sua
mucosa, fermentano cibo indigerito e ne
favoriscono la digestione. Diversa invece la
questione se tali organismi danneggiano in
qualsivoglia modo l’organismo ospite. Perché ci si riammala? Andando ai fatti dunque,
si sta assistendo ad un graduale ritorno in
malattia da parte di soggetti guariti da
mesi con ultimo esame di tampone negativo. Questo solleva una
semplice domanda: perché avviene ciò e
soprattutto perché in un così breve
intervallo per un virus, come riportato
dall’OMS, dieci volte più aggressivo e
letale di quelli della famiglia
Orthomyxoviridae influenzali e Myxoviridae
parainfluenzali a cui il Covid non
appartiene?
Le ipotesi attuali sono quattro
1 – Il genoma è
mutato Il sistema immunitario,
avendo anticorpi con memoria specifica per
le proteine sintetizzate dal genoma
precedente, non riconosce le nuove e quindi
non riesce ad attaccarlo. Questo caso tuttavia, non
solo è in contrasto (almeno fino ad oggi)
con l’assenza di una mutazione significativa
del virus all’interno di uno stesso ceppo
(come evidenzia lo studio comparato
dell’analisi del genoma nel passaggio dal
sud Asia al sud America), ma la presenza
del virus, anche mutato, si sarebbe dovuta
riscontrare nell’ultimo tampone effettuato
dal soggetto che ripresenta i sintomi. 2 – Il ceppo è
diverso Questa potrebbe essere
un’ipotesi più plausibile in quanto sebbene
il virus sia stabile all’interno del suo
ceppo, è stata ampiamente comprovata la
presenza di molteplici varianti virali, che
per quanto stabili hanno la sequenza del
genoma combinata differentemente: questo
determina nel caso di una seconda infezione
sia che tali ceppi non siano riconoscibili
dagli anticorpi della prima, sia che la
sintesi proteica (che la sequenza virale
genera) possa differire e quindi scatenare
infiammazioni in zone non univoche. Da
notare che come ceppo differente non si
intende una mutazione del ceppo originario
ma una sequenza parallela alla prima già
esistente, ovvero sviluppatasi isolatamente
o derivante dalla prima, in entrambi i casi
fenomeni avvenuti non nel presente o passato
prossimo ma in tempi remoti. Questo caso, sebbene
possa rappresentare un problema poiché, come
per i virus influenzali, anticorpi o vaccini
per un ceppo sono pressoché inutili nei
confronti di un altro, non rappresenta nulla
di nuovo da un punto di vista del
funzionamento del nostro sistema immunitario
per il contrasto di virus dai cui
innumerevoli ceppi veniamo attaccati nel
corso della nostra vita.
3 – Perdita di
Anticorpi specifici Gli anticorpi elaborati
dal nostro organismo per combattere il virus
hanno una memoria a breve termine, ovvero
riescono a riconoscere ed attaccare le
proteine del ceppo virale solo per pochi
mesi. Questa è un’ipotesi che
ben si coniuga con altri virus che danno un
quadro sintomatico simile, come ad esempio
quelli influenzali; è infatti un dato
comprovato che l’immunità acquisita nei
confronti di Orthomyxovirus o Myxovirus non
è permanente ma di solito efficace per un
periodo variante da pochi mesi a qualche
anno. È un fenomeno normale per
il nostro corpo che solamente per pochissimi
virus sviluppa un’immunità a lungo termine
(per fare un esempio, nel caso di malattie
infantili come morbillo o varicella). La risposta immunitaria
dipende dalla sequenza genetica del virus e
dalle proteine che ne derivano nella
successiva sintesi: per essere più specifici
esiste una “immunità innata”, ovvero una
capacità che ha il nostro corpo nel
riconoscere corpi organici estranei. Una
volta individuato il corpo estraneo si
sviluppa un’immunità adattiva, cioè vengono
riconosciute come estranee le proteine di
cui il virus è composto: si parla in questo
caso di antigene, ovvero una proteina
riconosciuta dannosa e contro la quale il
nostro organismo, tramite i linfociti,
produce anticorpi specifici che legano con
l’antigene individuato. In alcuni casi l’immunità
acquisita perdura nel corso della vita (si
parla in questo caso di immunità permanente
o di lunga durata), in altri casi la
“immunità innata” fornisce comunque
un’efficace risposta generica (si parla
quindi di immunità parziale), in casi come
quelli influenzali l’immunità è a breve
termine (in questo caso si parla di immunità
temporanea). Anche questo è un
fenomeno potenzialmente preoccupante poiché
è da precisare che un’immunità a breve
termine può mettere a rischio il nostro
organismo anche dallo stesso ceppo di virus,
contratto però in intervalli temporali
differenti, costringendo il nostro sistema
immunitario a dover affrontare nuovamente la
malattia.
4 – Il virus
diventa un Provirus Si parta dal presupposto
che il DNA è presente solamente all’interno
della cellula, mentre l’RNA è presente oltre
che nel nucleo, nel citoplasma, ovvero nella
parte esterna della cellula, quindi se una
cellula di qualsivoglia tipo si volesse
replicare, deve fare in modo che il DNA di
cui è composto il suo patrimonio genetico
debba necessariamente duplicarsi in RNA
messaggero per uscire dalla cellula stessa. I linfociti che
vengono a contatto con qualsiasi proteina
estranea (sintetizzata dalla sequenza
genetica del virus) generano anticorpi
specifici; pertanto se il virus rimane
all’esterno ha molte più possibilità di
essere individuato e quindi tutte le cellule
portatrici vengono uccise, eradicando il
virus dall’organismo ospite. Tuttavia non sempre
avviene ciò: il meccanismo che usa ad
esempio l’HIV per garantirsi un serbatoio
indeterminato di sopravvivenza, è
l’integrare il proprio RNA con il DNA della
cellula nascondendolo al suo interno,
eliminando l’RNA all’esterno e diventando un
tutt’uno con il genoma della cellula
infettata: è uno stadio che i virologi
chiamano “provirus” rendendo quindi
difficile la localizzazione da parte degli
anticorpi (sia perché parte del DNA è quello
della cellula di origine, sia perché l’RNA
estraneo all’esterno è scomparso). Un
provirus di per se stesso non produce
virioni ovvero agenti virali, ma quando le
cellule infette si vanno a replicare, si può
rimettere in moto il meccanismo di
progressiva infezione ed il virus può
riattivarsi. Sebbene
quest’ultima ipotesi venga ritenuta la più
pericolosa, in quanto non si riesce mai ad
eradicare completamente il virus dal nostro
organismo, rimanendo in stato latente e
dando l’illusione che si sia guariti è per
ora considerata remota, in quanto la
stabilità del codice genetico del virus lo
rende poco propenso a creare filamenti
all’interno del DNA della cellula ospite.
Yoshi M.D.
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