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Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno" |
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Arriva la flat tax: carezze ai
Paperoni e schiaffi ai lavoratori
Attraverso il fisco lo Stato
redistribuisce la ricchezza secondo un principio di
giustizia e di solidarietà: chi ha più forza
economica versa più soldi di chi ne ha meno. È
quanto prevede la Costituzione italiana, stabilendo
che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese
pubbliche in ragione della loro capacità
contributiva”, e soprattutto che “il sistema
tributario è improntato a criteri di progressività”
(art. 53). In tal modo più si è facoltosi, e più è
elevata la percentuale di reddito che deve essere
versata allo Stato, che la utilizzerà per fornire i
beni necessari a soddisfare i diritti fondamentali
di chi non può ottenerli a prezzi di mercato: dalla
sanità all’istruzione, passando per le pensioni, la
casa e la mobilità. Si attua così il principio di
parità sostanziale richiamato anch’esso dalla
Costituzione italiana, per cui lo Stato deve
assicurare l’uguaglianza dei cittadini rimuovendo
gli ostacoli di ordine economico e sociale che
impediscono il pieno sviluppo della persona (art.
3). Opposto è lo schema voluto dalle
destre, che rifiutano la progressività del sistema
tributario e reclamano la flat tax: la tassa piatta,
con aliquota fissa, che non cresce con l’aumentare
del reddito. È lo schema utilizzato nella Russia di
Putin, in alcuni Stati un tempo appartenuti al
blocco sovietico e poi divenuti campioni di
liberismo, e ovviamente nei paradisi fiscali. Lo
schema che in Italia è stato sponsorizzato da
Berlusconi negli anni Novanta, e più recentemente
dalla Lega. Per ora non se ne è fatto nulla,
almeno per le imposte sui redditi delle famiglie
(giacché l’Ires, l’imposta sul reddito delle
società, ha un’aliquota fissa, ora al 24%). A meno
che non si sia ricchi, stranieri (o italiani
residenti all’estero da oltre nove anni) e
intenzionati a fissare la propria residenza in
Italia: in questo caso i redditi prodotti all’estero
subiscono una tassazione forfettaria di 100mila
euro. È quanto ha previsto l’ultima Legge di
stabilità, e attuato un provvedimento dell’Agenzia
delle entrate dell’8 marzo. Il tutto per attirare i
Paperoni nel Belpaese, consentire loro di
arricchirsi pagando da noi tasse irrisorie (rispetto
alla loro forza economica), di eludere le leggi
fiscali del Paese in cui detengono il loro
patrimonio, e magari anche di ripulire somme di
dubbia provenienza. Ammettiamo anche che alcune
centinaia di Paperoni si facciano convincere, e che
dunque lo Stato incassi qualche decina di milioni di
euro. Vale la pena incassare questi soldi, una
misera mancia rispetto alle dimensioni del bilancio
statale, se il prezzo da pagare è la cancellazione
del principio di equità sociale che regge il nostro
sistema tributario, e quindi di un elemento
fondamentale del patto di cittadinanza? Possiamo
invocare l’utilità di una misura (peraltro minima e
tutta da dimostrare), trascurando che produce
ingiustizie insopportabili, indicative delle
gigantesche contraddizioni in cui viviamo? L’Istat ci dice che in
Italia quasi l’8% delle persone versano in
condizioni di povertà assoluta, ovvero conoscono la
fame: una cifra quasi raddoppiata rispetta a dici
anni prima, spaventosa per l’ottavo Paese più ricco
del mondo. Dove a essere colpiti sono soprattutto i
giovani, disoccupati nel 40% dei casi: motivo per
cui sono costretti a vivere in famiglia (accade a 7
milioni di loro), o a emigrare in cerca di lavoro
(circa 100 mila l’anno scorso, oltre la metà dei
cittadini iscritti all’Anagrafe degli italiani
residenti all’estero). Il tutto mentre aumenta
l’esercito dei working poor: persone che lavorano,
retribuite però con salari talmente bassi da non
consentire loro di vivere al di sopra della soglia
di povertà. Persone per le quali non vale un altro
elemento fondamentale del patto di cittadinanza:
quello, richiamato dalla Costituzione, per cui tutti
sono tenuti a svolgere “un’attività o una funzione
che concorra al progresso materiale o spirituale
della società” (art. 4), potendo però ricavare da
essa i mezzi per condurre “un’esistenza libera e
dignitosa” (art. 36). Ciò nonostante nessuno
mette in discussione le ricette che hanno condotto a
alla macelleria sociale che ha oramai invaso le
nostre esistenze: si continua a tagliare la spesa
sociale, proprio mentre se ne ha più bisogno, e ad
abbassare le tasse alle imprese, e ora ai ricchi,
nella speranza che in questo modo si possano
attirare investitori esteri. E nel contempo si
precarizza il lavoro, cancellando diritti e aprendo
così la strada verso ulteriori compressioni del
salario. È questa l’essenza del confitto,
oramai sempre più drammatico, tra lavoratori
inchiodati alla dimensione territoriale e imprese
sempre più sradicate da quella dimensione: sempre
più ridotte a impalpabili flussi dell’economia
finanziaria. Un conflitto alimentato dagli Stati,
capaci solo di assecondare il dilagare di questi
flussi, di incoraggiarli attraverso una corsa al
ribasso tra chi offre le migliori condizioni per le
imprese, e di riflesso le peggiori per i lavoratori.
Imprese oramai capaci di scrivere le regole del
gioco, e lavoratori tutt’al più destinatari di
elemosine elettorali. Alessandro Somma,
micromega.net
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