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Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno" |
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Madre coraggio sfida i
reclutatori jihadisti
Dopo gli
attentati di Bruxelles, mentre su twitter c’è chi
inneggia ai terroristi, non mancano i musulmani che
si ribellano attivamente al terrorismo. Come fa in
Francia Latifa Ibn Ziaten. Suo figlio fu ucciso nel PARIGI. Decise
d’un tratto, dopo 40 lunghi giorni di un lutto
struggente, di un dolore impossibile. «Volevo andare
dove era morto Imad». Latifa Ibn Ziaten, 55 anni,
madre coraggio, salì su un treno a
Sotteville-lès-Rouen, anonima cittadina della
Normandia, dove vive dal lontano 1977. E scese giù,
fino a Tolosa: là, l’11 marzo 2012, era stato
assassinato suo figlio, Imad, paracadutista
dell’esercito francese, da quel Mohamed Merah,
integralista islamico, che, dopo aver ucciso sette
persone, compresi tre piccoli allievi di una scuola
ebraica, sarà poi annientato in un assalto dalle
teste di cuoio. Latifa voleva vedere. Imad aveva messo in
vendita la sua moto su Internet.
Merah lo chiamò e gli dette appuntamento: voleva
uccidere un militare, niente di più. Un giovane
contro un giovane: si ritrovarono uno di fronte
all’altro, entrambi francesi e di origini
maghrebine. «Non ho mai provato odio per lui»,
racconta Latifa, «ma avrei voluto che fosse
catturato e che spiegasse perché l’aveva fatto. Per
capire». Nel delirio del suo lutto si era convinta
che «Imad, prima di morire, aveva pensato a me, mi
aveva scritto qualcosa per terra». Ovviamente, una
volta arrivata sul posto, non trovò nulla. «Decisi
poi di andare a vedere la casa di Merah, dove era
cresciuto». Il quartiere degli
Izards, squallidi palazzoni di alloggi sociali,
pieni di immigrati, periferia nord-est di Tolosa.
«Mi imbattei in un gruppo di ragazzi. E chiesi loro
dove abitasse Merah». Esitarono e poi uno di loro,
con una freddezza che non dimenticherò mai, mi
disse: « “Ma, signora, lei non la guarda la
televisione? Mohamed è morto. Ed è un martire, un
eroe dell’islam. Ha messo la Francia in ginocchio”.
Ecco, a quel punto per me Imad morì una seconda
volta», continua la donna. «A quei giovani rivelai
chi ero davvero. E che Merah era un assassino e
basta». Si vergognarono: “Scusi signora”, “siamo
spiacenti signora”, “lei è coraggiosa signora”.
Finché uno di loro cercò di giustificarsi: «Guardi
dove abitiamo: come vede, non siamo stati fortunati.
Siamo come ratti tenuti prigionieri. E che, quando
escono, devastano tutto sulla loro strada». In quel momento la
signora Ziaten ebbe un’illuminazione:
capì come avrebbe elaborato il suo lutto. Diede vita
a Imad, l’Associazione per la gioventù e la pace.
«Voglio riempire il vuoto che hanno i ragazzi di
quei quartieri, prima che lo riempiano altri». Con
l’aiuto di tante persone (anche Jamel Debbouze,
comico di origini arabe, famosissimo tra i giovani
francesi), gira come una trottola la Francia,
visitando scuole, centri comunali e prigioni.
Racconta come lei, arrivata a 17 anni dal Marocco,
al seguito del marito, marocchino anche lui e
assunto alle Ferrovie, abbia sempre vissuto «da
musulmana praticante nel rispetto della Repubblica
francese». Stasera si trova sulle colline di Sèvres,
alle porte di Parigi: accompagna le vedove e le
madri dei morti di attentati in Marocco, per qualche
giorno di vacanza in Francia, organizzati
dall’associazione. Infaticabile Latifa. Dignitosa,
malinconica. Quando arrivò in
Normandia, non parlava la lingua.
«Me la insegnarono i vicini, che erano francesi. Poi
ho seguito dei corsi. Ho aspettato qualche anno
prima di avere dei figli, perché volevo integrarmi a
tutti i costi. Non è stato facile, soprattutto agli
inizi. Ma ce l’ho fatta: tutti in casa ce l’abbiamo
fatta». Ha lavorato sempre: come donna delle
pulizie, a vendere frutta e verdura al mercato, in
una mensa scolastica, poi all’accoglienza del museo
delle Belle arti di Rouen. È rimasta musulmana e ha
sempre trovato il modo di professare la sua
religione e di fare le preghiere, anche lavorando.
«Il foulard in testa non lo portavo, ho iniziato
dopo che Imad è morto, per il mio lutto, per
rispetto nei confronti di mio figlio. Ci sono dei
francesi che mi criticano: dicono che non posso
parlare di laicità e di spirito repubblicano, con il
foulard in testa. Ma si sbagliano». «Il Marocco è
mia madre», aggiunge, «la Francia mio padre. Mi ha
adottata: mi ha permesso di fare qualcosa nella
vita, anche ai miei cinque figli». I suoi incontri con le
scolaresche e i genitori si
trasformano in sedute psicanalitiche, soprattutto
dopo gli attentati del 2015. «In tanti si
commuovono, scende qualche lacrima. Alla fine c’è
chi si ritrova tra le mie braccia e chiede: me le fa
due coccole?». In febbraio con la sua associazione
ha inaugurato addirittura una Casa Imad per i
giovani e i loro genitori, nella periferia nord di
Parigi, a Garges-lès-Gonesse: rimane sempre aperta
ai ragazzi e alle loro famiglie, perché condividano
dubbi e paure e si possano confrontare,
nell’obiettivo comune di evitare la
“radicalizzazione” dei giovani, nuova malattia di
Francia, quando quell’idea estrema, folle e violenta
di un jihad contro l’Occidente fa irruzione nelle
teste. Latifa spiega tutto in
un francese delicato, talvolta
solenne, con qualche errore che sfugge via, ma che
non perde mai una finezza estrema nell’analizzare i
sentimenti. «Imad per me non era solo un figlio, ma
un amico, un confidente». Si assomigliavano come due
gocce d’acqua. Merah gli disse che doveva
inginocchiarsi, prima di giustiziarlo. Ma lui si
rifiutò. «Morì in piedi. Anch’io, quando pronuncio i
miei discorsi, resto sempre in piedi». La sua
assenza «ha lasciato un vuoto dentro di me, che
nessuno può colmare». Latifa riflette, si commuove e
poi aggiunge: «Ma Imad non è morto invano». Leonardo
Martinelli, Pagina99.it 22 marzo 2016
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