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Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno" |
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JOBS ACT, ovvero la tomba del diritto costituzionale al lavoro di Alvaro Belardinelli
Urlano vittoria, i fan del Governo Renzi. “Tutele crescenti” le chiamano: ma di crescente c’è soltanto la subalternità del lavoro rispetto alla legge del profitto. Cancellato de facto il diritto al reintegro sul posto di lavoro in caso di licenziamento per giusta causa (anche per i licenziamenti collettivi). Norma dal valore simbolico, l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori rappresentava un limite all’arbitrio del datore di lavoro: il quale ora sarà libero di licenziare anche (e soprattutto) il sindacalista scomodo (specialmente se milita in un “eretico” sindacato di base), la lavoratrice incinta e quella che non cede alle avance sessuali del padrone. Piace tanto a Confindustria, ecco perché Come sessant’anni fa. Confindustria ringrazia la fedeltà del Partito Democratico, quello che ha portato la “sinistra” al Governo. Infatti nel testo (approvato «salvo intese») resta il reintegro solo in caso di “licenziamento discriminatorio” (difficilissimo da dimostrare). Per ogni altro licenziamento senza giusta causa «il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata peraltro a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità». Briciole, per la parte datoriale. In caso di licenziamento per giusta causa il datore di lavoro è condannato a reintegrare il lavoratore e a risarcirlo solo se il giudice dimostra che il dipendente è stato accusato ingiustamente. Il problema è come dimostrarlo. Parolaio propagandistico Un provvedimento semplicemente reazionario, ma coerente: coerente con lo stravolgimento della Costituzione e della Scuola, coerentemente perpetrato dal Governo Renzi e ben camuffato dalla propaganda dell’orchestrina mediatica. Perfino il nome (inventato secondo la logica del “dimolo strano”) sa di trovata pubblicitaria da venditore di patacche: jobs act (o job act o job’s act che dir si voglia), letteralmente dovrebbe significare “piano per il lavoro”. Eppure chi conosce l’inglese avrebbe preferito, al posto di act, il vocabolo bill. Ma si sa, il nome commerciale di un prodotto da lanciare sul mercato non è necessariamente quello più corretto. La controriforma del lavoro in tre colpi La realtà si scopre solo dopo un’attenta lettura dei tre provvedimenti. I cui titoli effettivi suonano già un po’ più inquietanti del paroloide propagandistico: “Schema di Decreto Legislativo recante il testo organico delle tipologie contrattuali e la revisione della disciplina delle mansioni, in attuazione della Legge 10 dicembre 2014, n. 183”; “Schema di decreto legislativo recante disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”; “Schema di decreto legislativo in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183 recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”. Il nuovo che avanza: tutti precari … Parole a parte, i fatti (oltre alla neutralizzazione delle norme sul reintegro) sono questi: le aziende (tutte, anche quelle non in crisi) potranno in qualunque momento “demansionare” i dipendenti. Ossia modificarne le mansioni. Ciò significa che un domani (poiché in Italia non c’è limite al peggio) un Docente potrebbe essere “demansionato” a bidello, un impiegato ad operaio. In barba all’articolo 2103 del Codice Civile, modificato dall’articolo 13 della Legge n. 300/70 (Statuto dei lavoratori), che recita: «Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto oppure a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione delle retribuzione».
Il contratto è rottamato tra “Asdi”, “Dis-coll”, “Naspi” Il Governo millanta che «Il lavoratore avrà sempre garantito il trattamento economico»; in realtà la conservazione del reddito non comprende «trattamenti accessori legati alla specifica modalità di svolgimento del lavoro». Con “accordi individuali”, del resto, lo stipendio potrà essere ridotto. Renzi dovrebbe però spiegare quali strumenti abbia il lavoratore per impedire che gli “accordi individuali” siano sempre a proprio sfavore, ancorché «nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione». Inoltre il lavoratore potrà sempre essere spostato da un’unità produttiva all’altra. Il solito gioco di prestigio con i diritti delle persone. E con le parole: aboliti “co.co.pro.” e “co.co.co.”, ecco spuntare i nuovi, formidabili ammortizzatori sociali, indicati con i sibillini acronimi “Asdi” (“Assegno di disoccupazione”), “Dis-coll” (“Indennità di disoccupazione per i lavoratori con rapporto di collaborazione coordinata e continuativa e a progetto” e “Naspi” (“Nuova Assicurazione Sociale per l'Impiego”). Cambiare tutto per non cambiare nulla (o per rendere più letali le armi dei potenti). «Oggi è il giorno atteso da anni», twitta euforico Renzi. «Il #JobsAct rottama i cococo cocopro vari e scrosta le rendite di posizione dei soliti noti». Finge, il “Grande Twittatore”, di aver eliminato il precariato. In realtà lascia in piedi il contratto a tempo determinato, il contratto a chiamata ed il contratto di somministrazione, caratteristico delle agenzie interinali. E rende più precario il “tempo indeterminato”. Sono il capo decido io. L’abbiamo già sentita! Per realizzare questo capolavoro, il Governo non ha ascoltato nessuno dei pareri contrari, nemmeno quelli interni al PD; tanto meno ha recepito le raccomandazioni delle commissioni parlamentari. Ancor meno ha pensato alla Costituzione, che fa del lavoro il fondamento della Repubblica. O, se ci ha pensato, è stato per aggirarla, ancora una volta.
Il lavoro e le favole
del governo
di Carlo Anibaldi
"C'è un fatto nuovo, la
maggior parte del Paese, quella che per vivere
deve lavorare, non è rappresentata". (Maurizio
Landini)
Renzi è riuscito là dove Berlusconi ha fallito, è riuscito insomma, nell'indifferenza anche degli interessati, a far passare l'idea che gli interessi del capitale coincidono con gli interessi della gente...quando millenni di Storia stanno là a dirci il contrario e per cui insieme alle due Rivoluzioni Industriali, la prima fino al 1830 e la seconda dal 1870, nacquero le rappresentanze sindacali e le contrattazioni collettive. Ora arriva un Renzi qualsiasi, un uomo di paglia al servizio o semplicemente plagiato dalla BCE e dagli interessi della minoranza della popolazione, quella che per vivere alla grande fa lavorare il prossimo a regime di sostentamento, a cancellare il lavoro come diritto e reintrodurre il principio del lavoro come "favore" sottoposto ad interessi maggiori. Ma non serve essere marxisti per comprendere il concetto che è una aberrazione questa. Il lavoro come metodo di arricchimento di pochi è infatti stato per secoli, anzi millenni, sostenuto dalla schiavitù, imperante in ogni continente come legge naturale, invece il lavoro inteso come organizzazione sociale evolutiva delle condizioni dei singoli e del complesso sociale in ogni classe è la modernità che ha creato la società dove viviamo, dove alle differenze di classe non dovrebbe corrispondere anche una differenza di dignità e diritti. Il lavoro che dunque Renzi sta facendo non è per il progresso sociale ma per riaffermare il principio che il lavoro è il privilegio che alcuni hanno di poter far arricchire altri. Il renzismo è peggio del berlusconismo e va abbattuto, non tanto nelle persone e nei cani di paglia, ma nei principi aberranti. (Carlo Anibaldi)
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