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Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno" |
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Il caso Palatucci e la Shoah
italiana
di Furio Colombo La scoperta è brutale. Viene fuori che Giovanni Palatucci, commissario con incarichi speciali all’Ufficio Stranieri della Questura di Fiume (allora città italiana e fascista) negli anni 1943-1945 non era affatto il protagonista di racconti, deposizioni, documenti, libri e film sul suo coraggio nel difendere e salvare migliaia di ebrei, per poi finire lui stesso a Dachau, dove è morto a 37 anni. Era invece un informatore speciale degli uffici speciali di Hitler che tessevano per tempo la ragnatela di informazioni che avrebbe consentito ben poche fughe. È un colpo duro per Israele, che proprio quest’anno aveva iniziato, con il nuovo ambasciatore Naor Gilon, una speciale celebrazione dei Giusti italiani. È un colpo duro per molte serie documentazioni esistenti. Ma è forse il momento in cui si rivela in pieno un aspetto scostante e difficile del dramma italiano: italiani come complici, non come Giusti che salvano a costo della vita. O almeno non tutti coloro finora celebrati. Provo a raccontare. NEL 1987 un’importante casa editrice di New York, Basic Books (seguita l’anno successivo dalla Nebraska University Press) ha pubblicato il primo testo americano di livello accademico sulle leggi razziali italiane, la persecuzione, la deportazione, lo sterminio non solo ad opera dei tedeschi, ma anche dei fascisti e dei delatori italiani. L’autrice, Susan Zuccotti, era docente di Storia della Columbia University, nota per lo scrupolo della documentazione e ricerca. Il libro The Italian Holocaust, Persecution and Survival ha meritato quell’anno il National Jewish Book Award. È toccato a me scrivere l’introduzione. In quelle pagine ho potuto dire i due problemi che hanno tormentato l’Italia (o meglio la coscienza pubblica e privata degli italiani) dopo la guerra: un lungo silenzio sulla Shoah italiana, al punto che persino i sopravvissuti hanno rinunciato a parlare per paura di non essere creduti, e in cui tutto lo spazio è stato occupato dal mito esclusivo della Resistenza. E poi, a mano a mano che l’immenso problema emergeva, in brani di storiografia, documenti ritrovati e, finalmente nelle testimonianze raccolte, nella viva voce dei sopravvissuti, è cominciato un “riscatto” degli italiani, che in infinite storie sono apparsi come protettori, salvatori e garanti dei perseguitati. In questo modo, scrivevo, non c’era ancora stato un rendiconto della Shoah italiana. Naturalmente tenevo conto di Primo Levi. Ma Primo Levi è diventato presto il simbolo dell’orrore concentrazionario nazista, non della persecuzione italiana. E così restava libero lo spazio per continuare a celebrare la grande umanità degli italiani. Nasce di qui, da questo libro e da questa riflessione cominciata quando ancora, insieme con Edoardo Sanguineti, nel nostro liceo D'Azeglio di Torino abbiamo creato problemi ai nostri docenti (tutti antifascisti) perché volevamo parlare di leggi razziali prima che delle eroiche vicende della Resistenza, la mia ostinazione a istituire per legge un “Giorno della Memoria”. La ragione è scritta nelle prime righe di introduzione alla legge: “Perché la Shoah è un delitto italiano”. Eppure anche nel libro di Susan Zuccotti, a pag. 218 e 219, la storia di Palatucci è narrata come quella di un eroe che sacrifica tutto e va a morire a Dachau per salvare dalla città di Fiume di cui è responsabile, quanti più ebrei è possibile. Tutto falso, ci avvertono ora ricerche accurate. Dachau è la sventura di un funzionario caduto in disgrazia dopo avere servito al meglio nel compito di identificare, trovare, arrestare, consegnare cittadini ebrei, con destinazione esclusiva allo sterminio. Alexander Stille, di questa materia studioso più che giornalista, ha indicato al New York Times tre ragioni: il desiderio cattolico di sbloccare la questione Pio XII esibendo il lavoro e l’impegno per gli ebrei di emblematiche figure di cattolici: la voglia continua e appassionata degli italiani (gli stessi della guerra d’Africa) di essere “buoni” e comunque migliori degli altri europei. E quel tipo di “pacificazione” dopo la Resistenza che ha avuto il merito di evitare la guerra civile, ma il torto di seppellire molti misfatti. MI SEMBRA che Stille abbia ragione, e – conoscendo le fonti da cui ora viene accesa la luce sul mito di Palatucci – temo che la storia sia credibile. Ho detto temo perché in passato, e sulla base di ciò che sapevo, ne avevo scritto anch’io e mi piaceva l’immagine di un giovane funzionario, in questo Paese conformista e tutt’altro che anarchico, quando si tratta di stare al sicuro dalla “parte giusta”, un uomo che capisce subito e da solo che stava servendo leggi disumane e insensate. Trovo una misera attenuante per l’ignoto funzionario Palatucci, diventato informatore speciale dei nazisti in Italia: non aveva esempi, non sentiva voci, nel senso di vere voci umane e note. Controprova: ricorda qualcuno che mi sta leggendo o che discuterà queste note, un solo grande intellettuale o artista italiano, qualcuno con il microfono aperto e rapporti col mondo, che abbia detto una sola parola contro le leggi razziali italiane? Temo che la caduta di Palatucci sia un colpo mortale alla celebrazione continua della grande umanità degli italiani. Esiste, certo che esiste. Ma non così come ci hanno detto. il Fatto quotidiano, 21 giugno 2013
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