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Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno" |
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Dal Corriere della Sera del 9 settembre 2010
Come si insegna l'italiano? Qual è lo stato di salute
della nostra lingua? Come dovrebbero essere le
grammatiche e i manuali? Come si possono integrare lo
studio della lingua e della letteratura? Il tema è meno
efficace del riassunto? E in quale misura il latino e il
greco ci aiutano a capire le nostre radici culturali? E
ancora: è ragionevole pensare all'inserimento dei
dialetti nei programmi scolastici? Le opere italiane di
Dante, Boccaccio, Leopardi hanno veramente bisogno di
essere "ammodernate" in una lingua più "comprensibile"?
A pochi giorni dalla riapertura delle scuole e delle
università le grandi questioni di fondo che animano
l'insegnamento dell'italiano ritornano al centro
dell'attenzione. Il dibattito tra gli addetti ai lavori,
purtroppo, si svolge sempre più all'interno di un clima
di sfiducia, provocato da una tendenza, ormai cronica, a
ridurre progressivamente i finanziamenti alle scuole,
alle università e alla ricerca. Come se la sacrosanta
battaglia contro gli sprechi dovesse risolversi
necessariamente in un disimpegno dello Stato verso la
formazione delle nuove generazioni e verso la ricerca
scientifica e umanistica. Del resto, i fatti parlano
chiaro: è meglio spendere oltre due miliardi di multe
per aver violato le disposizioni sulle quote-latte che
potenziare l'insegnamento e la ricerca. Gli interessi
personali di un gruppo di "furbetti" allevatori valgono
molto di più dell'interesse generale di un paese che
dovrebbe investire nell'educazione dei giovani.
Proprio oggi Laterza pubblica un agile volume di Luca
Serianni (L'ora di italiano. Scuola e materie umanistiche, pp. 121, € 9), in
cui si discutono alcuni importanti interrogativi che
ruotano attorno all'insegnamento della lingua e delle
letteratura. Professore ordinario di Storia della lingua
italiana all'Università
Per anticipare alcuni dei grandi temi affrontati nel suo
saggio, abbiamo incontrato l'autore a Roma, prima della
sua partenza per un giro di conferenze in Argentina. «Il
dibattito sull'italiano - ci spiega Serianni - suscita
sempre accese discussioni. La polemica
sull'analfabetismo di massa che riguarderebbe i nostri
studenti, sollevata da tanti recenti articoli di
giornale, andrebbe probabilmente relativizzata, evitando
di cadere nello sterile catastrofismo. Ciò detto, non
bisogna neanche sottovalutare il fatto che purtroppo il
lessico in possesso dei giovani è sempre più povero: si
conosce poco il lessico astratto e si conoscono poco
quelle parole meno usuali, ma non del tutto obsolete».
«È difficile - continua lo storico della lingua -
attribuire le responsabilità di questa situazione ad una
sola causa: la televisione, internet o l'sms. Bisogna
riconoscere, purtroppo, che nella giornata tipo
dell'adolescente, come in quella dell'adulto, l'atto del
leggere passa in secondo piano. Ci sono tante cose da
fare. Si corre di qua e di là. La scuola potrebbe
giocare un ruolo importante per educare gli studenti
alla lettura».
L'insegnamento della lingua, però, non deve essere
fondato sulla esclusiva somministrazione di regole e
tassonomie. «Uno dei difetti di alcune grammatiche -
osserva Serianni - riguarda proprio l'astratta
classificazione dei materiali. Sarebbe invece più
fruttuoso far leggere ai giovani un editoriale di un
quotidiano o un saggio su rivista per acquisire una
maggiore conoscenza della prosa argomentativa. Anche
l'interazione con la letteratura è importante. Pur
facendo parte di due ambiti diversi, lingua e
letteratura possono dar vita ad un'efficace sinergia: la
lettura diretta dei testi può essere legata a una
prospettiva storico-linguistica». Basti pensare a come
una serie di parole assumano nel tempo significati
completamente diversi. «Ai ragazzi - assicura Serianni -
può interessare sapere che il termine "noia" in Dante
non ha niente a che vedere con l'accezione moderna
(assenza di stimoli, gradevoli o spiacevoli che siano):
per il poeta fiorentino, infatti, la "noia", lontana da
ogni sbadiglio, designa la sofferenza, la presenza di
situazioni moleste...».
Nonostante queste differenze, sarebbe insensato
"tradurre", come alcuni hanno già fatto, i classici
italiani "in italiano". «Mi sembra un'operazione
sostanzialmente inutile - sottolinea lo storico della
lingua - come ha egregiamente dimostrato Michele
Loporcaro in un recente saggio su "Belfagor". La
traduzione del
Decameron di Busi è un'altra cosa rispetto al testo
di Boccaccio: è una riscrittura operata da un romanziere
contemporaneo. E così l'ammodernamento del
Cortegiano,
proposto da uno specialista come Amedeo Quondam, può
veramente eliminare le difficoltà di lettura che un
classico impone? Superare l'handicap linguistico può
essere sufficiente ad avvicinare gli studenti ai grandi
testi della nostra letteratura? Il vero ostacolo è la
comprensione e l'interpretazione. Facciamo parlare i
classici nella loro lingua...».
Sulla delicata questione dell'insegnamento dei dialetti
- più volte strumentalmente rilanciata negli ultimi anni
da amministratori locali del Nord -
Serianni non ha dubbi: «Nessuno vuole
disconoscere la piena dignità espressiva dei dialetti.
Ma è altra cosa proporli come disciplina di
insegnamento. Quale dialetto bisognerebbe insegnare a
scuola nel Veneto: il veneziano, il vicentino o il
veronese? E poi: a discapito di quale disciplina? Quale
materia andrebbe eliminata o depotenziata?». Un discorso
a parte meritano le lingue classiche. «Il latino e il
greco - sottolinea lo storico della lingua
- sono una
risorsa che non va perduta. Non bisogna studiarle per
"allenare la mente" o perché considerate "lingue
razionali" (la matematica o la filosofia, per esempio,
funzionerebbero molto meglio). Vanno studiate
soprattutto perché sono alla base delle nostre radici
culturali e perché ci permettono, attraverso la
proiezione del passato sul presente, di risalire a
concetti con cui tuttora facciamo i conti: dai sistemi
politici alle concezioni del bello...».
Ma prima di lasciarci, lo studioso non nasconde la sua
viva preoccupazione. La discussione sull'ora di italiano
investe soprattutto il ruolo della scuola e
dell'insegnamento nella formazione dei futuri cittadini
e della classe dirigente che governerà il paese. «Tutti
riconoscono - ci dice Serianni - l'importanza della
scuola, dell'università, della ricerca. Ma poi le parole
non si traducono sempre in fatti. Spetta soprattutto
alla scuola educare i giovani alla lettura e
all'esercizio della critica.
Quel che si fa a scuola non riguarda solo professori e studenti:
riguarda il futuro della società, la sua capacità di
rinnovarsi e crescere. Se si sfascia la scuola, si
disintegra la società...».
Nuccio Ordine
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