COSTITUZIONE e DIRITTI SOCIALI

Relazione del prof. emerito Gianni Ferrara

Commemorazione –Convegno: Nel Nome di Giordano Bruno – Emancipazione e Uguaglianza, Roma, Campo de’ Fiori 17 febbraio 2012, a cura dell’Associazione Nazionale del Libero Pensiero “Giordano Bruno”

 

… gli deboli non siano oppressi da gli più forti, siano deposti gli tiranni …. siano faurite le repubbliche, la violenza non inculche la raggione, l’ignoranza non dispreggie la dottrina … le virtudi e studii utili e necessari al commune sieno promossi, avanzati e mantenuti; sieno esaltati e remunerati coloro che profitteranno in quelli; gli desidiosi, avari e proprietarii sieno spreeggiati e tenuti a vile…nessuno sia preposto in potestà che medesimo non sia superiore de meriti, per virtude ed ingegno in cui prevaglia     - Giordano Bruno, Spaccio della bestia trionfante, Milano, 1985, 160 -

 

La crisi profonda che stiamo vivendo noi in Italia, milioni di esseri umani in tutto l’Occidente, origina dall’attacco furioso, incessante, dirompente, scatenato mediante l’imposizione del liberismo come principio fondante della convivenza globale e praticandolo. La liberazione dei capitali dai confini degli stati si è tradotta e non poteva che tradursi nella liberazione dei capitali dalla democrazia negli stati, per quanto in essi potesse essersi realizzata, per quanto alle sue ragioni ed alle sue domande gli stati fossero stati convertiti e giuridicamente ridisegnati. Ha dissolto così le conquiste del costituzionalismo democratico, scardinando le sue istituzioni, contraendo le sue pratiche, affievolendo i suoi effetti. Non si è arrestato ai confini della democrazia politica. Ha assaltato le istituzioni della rappresentanza, suo indefettibile pilastro, vincolandole ai suoi dettami, manipolando, distorcendo la loro essenza e il loro valore, invece di integrarle, arricchirle con forme deliberative dirette da parte del corpo elettorale. Le domande della democrazia se insostenibili dall’economia capitalistica non avrebbero dovuto essere e non sarebbero state neanche esprimibili. Con una aggiunta conseguente e rassicurante per i detentori di capitali, quella della spoliazione degli stati privandoli dei poteri che li identificano come tali.    

 

Il senso, la verità dei sistemi economico-sociale non si tradisce, è inflessibile, inderogabile. Il liberismo si pone irrimediabilmente contro la democrazia, sicuramente contro quella dei diritti sociali, che è poi l’unica credibile. Si pone contro l’eguaglianza sostanziale prescritta dalle leggi. Per una ragione che è evidente e imponente. I diritti sociali costano, come tutti gli altri. La democrazia sostanziale costa, così come quella formale. Costano, a ben riflettere, tutti i diritti. Costa la loro tutela, il loro sicuro esercizio, gli interessi che sottendono, il loro godimento, qualunque sia la loro emersione nella dimensione del riconoscimento giuridico. Ma il loro contenuto, cioè i beni che li soddisfano, li differenziano quanto a strumenti che possono assicurarne il godimento.

Sono due questi strumenti, gli apparati pubblici e il mercato. Il costo degli apparati pubblici grava, ovviamente, sulla capacità contributiva dei cittadini, quello dei beni offerti dal mercato è fissato dal rapporto tra domanda ed offerta. Gli uni si fondano sul contributo pubblico, gli altri sulla disponibilità dei singoli. I diritti alla sicurezza interna ed esterna, alle appartenenze, alle dismissioni ed allo scambio di merci, alla neutralità di chi giudica le controversie, alla libertà di movimento di persone, di merci e di servizi, all’istruzione professionale, trovano negli apparati pubblici gli strumenti più convenienti ad assicurarli. Il costo economico complessivo di tali apparati non è messo in discussione quanto ad estensione della garanzia che assicurano. Ne gode, infatti, e da sempre, la generalità dei destinatari degli ordinamenti statali.

 Il mercato, invece, seleziona coloro che dispongono di una capacità contributiva più alta e li privilegia. Privilegia cioè coloro che possono acquisire sul mercato, ad un prezzo corrispondente ai loro specifici bisogni, i beni corrispondenti ai diritti sociali reclamati dalle fasce di cittadini con capacità contributiva minore o nulla. Privilegia quindi coloro su cui solo può gravare il costo degli apparati pubblici necessari a fornire le prestazioni che soddisfano i diritti sociali. Il godimento di tali diritti può quindi derivare soltanto dalla riduzione dei profitti e dalle rendite in misura pari alle risorse necessarie al finanziamento degli apparati fornitori delle prestazioni che ne sostanziano il godimento.

È la lotta di classe che si dispiega nella dimensione del giuridico. Solo un rapporto di forza politico-sociale che riduce a favore delle classi subalterne il potere di quelle dominanti può perciò assicurare la credibilità dei diritti sociali. Un rapporto che le ideologie dominanti rifiutano, considerandolo intollerabile. Quelle stesse che hanno legittimato l’autoregolazione del mercato, che è come dire degli agenti nei mercati, diretti o per procura che siano. Unici, tali agenti, tra gli umani, ad essere immunizzati, secondo gli apologeti di tale ideologia, dai vincoli etici e giuridici della convivenza per assicurare l’assolutismo del profitto sia quanto ad entità che quanto a modo di acquisizione.

 

Un assolutismo impostosi per dover fronteggiare un processo dalle conseguenze catastrofiche per il suo potenziale distruttivo. Tale perché, identificandosi tale processo con la caduta del saggio di profitto del capitale, è la radice del modo di produzione capitalistico ad essere coinvolta. Non sono mancate e non mancano reazioni di controtendenza a tale deriva. Ma proprio la maggiore di queste controtendenze, proprio quella su cui i capitali si sono riversati, disertando l’economia reale, cioè proprio la finanziarizzazione dell’economia ha prodotto la crisi che stiamo vivendo. A determinarla in modo specifico è stata la sovrapproduzione di quella merce speciale che è la moneta cui si sono aggiunti i suoi sostituti, i derivati, la massa di tutti i “prodotti” che la finanza ha inventato senza che avessero un fondamento certo, controllabile, reale. La finanza si è trasformata. Da mezzo che era, e dovrebbe essere, è diventata fine. È il fattore causale della finanziarizzazione che ha determinato la crisi epocale del sistema economico globale. Non è difficile accertarlo, non si nasconde, basta costatare l’inesauribile avidità di profitto. Un fattore sempre più incombente ma sempre più sottratto, liberato, immunizzato nei rapporti economici, sociali, politici, e nella conseguente produzione giuridica, dalla critica della ragione e dalla eliminazione dei contropoteri. Come se l’accrescimento illimitato del profitto fosse talmente inerente alla società civile, alla convivenza umana, alla stessa sopravvivenza della specie da sottrarsi al giudizio sul suo fondamento, sulla sua funzione, sulla sua utilità sociale. Da non poter quindi essere valutato almeno quanto a modo di acquisizione, misura, limite. Ponendosi quindi come l’unico assoluto nell’umana esistenza. Anche se si maschera, come ogni assoluto apparso nella storia delle credenze delle donne e degli uomini, agghindandosi di parole inebrianti come libertà, eguaglianza, giustizia, diritti umani, tolleranza, solidarietà, parità…

                      

Sono, queste parole, quelle delle declamazioni che si leggono nei primi articoli del Trattato sull’Unione europea che ha riprodotto gran parte del contenuto del progetto di “Costituzione europea” respinto dai due referendum, quello danese e quello francese nel 2005. Respinto il progetto di Costituzione per decisione popolare di quei due stati, i governi d’Europa trovarono nel trattato lo strumento per imporre sostanzialmente la normativa rigettata e dal contenuto chiaramente costituzionale ai popoli d’Europa. Una normativa quanto mai ampia (413 articoli) distribuita in due Trattati, uno dedicato all’architettura istituzionale di tipo sostanzialmente confederale per l’Unione, l’altro invece alla disciplina funzionale delle istituzioni dell’Unione. Una normativa quanto mai coerente, compatta, volta alla sottrazione di potere ai singoli stati-membri ed alla minuta ed insistente devoluzione di potere non a favore degli organi (istituzioni) dell’Unione ma a favore del “mercato interno”….”basato su …. un’economia sociale di mercato fortemente competitiva ...”(art. 3). Come un’economia sociale possa essere fortemente competitiva è un mistero che i redattori del Trattato non spiegano. A svelare l’arcano è la diffidenza naturale del costituzionalista che sa quanto vigile e fermo si sia rivelato il Bundesverfassungsgericht nel controllare la corrispondenza dei Trattati europei ai principi fondamentali sanciti nel Grundgesetz. Ebbene l’inserimento del termine “sociale” nella formula del suindicato art. 3 del Trattato sull’Unione non può essere attribuito che al miserabile tentativo di sfuggire alla sanzione di incostituzionalità del Trattato per l’ordinamento tedesco, visto che il carattere sociale dello stato e dell’economia si pongono a fondamento di quel Bund e lo qualificano. D’altra parte, il significato reale della formula è dato, ed inequivocabilmente, dagli articoli 119 e seguenti del Trattato sul funzionamento dell’Ue, funzionamento che è volto in via primaria ed assoluta all’instaurazione di “una economia di mercato aperta e in libera concorrenza”, formula ripetuta con un’insistenza non riscontrabile in nessun altro testo costituzionale finora conosciuto, così come nessun altro testo di tale livello pone, ed ha mai posto una dottrina economica come fondamento e fine unico di un ordinamento giuridico.

 

Quello dell’Ue invece, non solo ha adottato l’ideologia del neoliberismo, la ha anche resa prioritaria, assoluta. Adottandola, recependola, elevandola a sua ragion d’essere, l’Ue sta sprofondando in una crisi che la avvinghia alle radici, rivelando la fallacia del principio su cui si è basata ed il fine per cui è costruita. Il neoliberismo, infatti, è fallito. È fallito per non aver corrisposto alle promesse che i suoi ideologi avevano propagandato. È fallito per aver indebitato tutto l’Occidente, e non solo. Per non aver distribuito benessere ma per averlo o sottratto o dissolto. Per aver incrementato come mai prima d’ora l’ineguaglianza nel mondo.

Non è prevedibile, nell’ora presente, cosa ne seguirà. Il costo che già impone la sua crisi è enorme. Lo misurano le sofferenze di milioni di esseri umani, le distruzioni di certezze, di speranze e di progetti di vita, i prezzi da pagare non per il saldo, ma solo per il rinnovo dei debiti sovrani. Li chiamano sacrifici. Il significato di questo termine è vasto. Ma ogni suo denotato finisce col convergere nella alienazione, anche suprema, di un bene, proprio o altrui, anche della vita stessa: in omaggio a qualche divinità, per ingraziarsela, a salvaguardia di qualcosa (una Patria, un ideale, un principio) o per purificarsi di colpe reali o presunte. Quale divinità onora o placa il sacrificio imposto per fronteggiare la crisi ? Adempie a quale dovere e nei confronti di chi ? Di quali colpe purifica ? Si risponderà che l’obbligo cui l’alienazione risponde è quello di pagare un debito. Risposta ineccepibile se il creditore è un fondo pensioni. Ma lo è anche quando ad essere stato investito è il “denaro prodotto a mezzo di denaro” nei mercati finanziari, senza impiego della forza-lavoro, ad opera dei detentori dei capitali, cioè dello 0,15 per cento della popolazione mondiale nei confronti sostanzialmente del 99,85 per cento delle donne e degli uomini della Terra? Questa domanda riassume la questione della democrazia agli inizi del terzo millennio. Implica la constatazione che essa è sempre più esile se ridotta nelle angustie degli stati-nazione. Il che, se esclude recisamente l’abbandono di questi ambiti alle scorrerie dei populismi, della personalizzazione del potere, delle resezioni incalzanti dei diritti, se comporta invece la crescita delle contraddizioni tra democrazia e capitalismo, non può essere credibile se non si connette ad una strategia volta a creare la democrazia nei grandi spazi. Deve infatti dispiegarsi esattamente nella dimensione del potere da abbattere, alla stessa sua altezza. Ma di certo non per tendere ad un Leviatano planetario. Il progetto della democrazia mondiale dovrà invece mirare a confederare i continenti, per assicurare il libero sviluppo di ciascuno di essi, le varie culture, e soddisfare nella pace, nella libertà e nell’eguaglianza, i diversi bisogni del mondo. Sono gli ideali della democrazia che vanno inverati e sono oggi oscurati, negati. Indignarci è giusto. Ma è poco. Dobbiamo resistere. Dobbiamo difenderci. La Costituzione è dalla parte nostra. Lo è la Dichiarazione universale dei diritti umani. Ce lo chiede la dignità umana.