LE RAGIONI DEL SI
Perchè il Partito Democratico? Rispondere a
questa domanda implica un’analisi critica
dell’evoluzione della politica italiana degli
ultimi 50 anni. Esprimere le ragioni del SI e
raccontarle all’opinione pubblica, dalla quale
troppo spesso la politica si allontana,
significa mettere a fuoco prima di tutto alcuni
fenomeni precisi, oggettivi: la carenza di forza
identitaria dei movimenti politici storici,
ormai acclarata, la necessità di confrontarsi
con nuovi cicli sociali e produttivi,
l’inadeguatezza dei modelli politici di un
secolo che ormai si è chiuso e con i quali non
possiamo affrontare il secolo nuovo.
Il Partito Democratico rappresenta la naturale
evoluzione di un processo di profonda riforma
del Paese, che in politica è iniziato nel 1989
con la caduta del muro di Berlino, con il lungo
declino della Democrazia Cristiana e l’inchiesta
di Tangentopoli, per approdare a un primo
momento aggregativo importante nel 1996 con
l’esperienza dell’Ulivo, e con l’espressione di
un bipolarismo che potremmo definire
“imperfetto” ma già recante in sè i segni della
volontà popolare di rispondere ad un equilibrio
politico chiaro.
Fatti che raccontano una lenta trasformazione
del Paese e che sarebbe irragionevole ignorare.
Se 10 anni fa l’Ulivo lesse e comprese i segni
del desiderio di rinnovamento facendosene
interprete, oggi il Partito Democratico deve
portare a compimento questo desiderio compiendo
un ulteriore passo avanti. Non rinnegando la
propria storia, per citare un recentissimo
discorso di Piero Fassino a Bologna, ma
superandola. L’attualità ci incalza. Cosa
significano per un ragazzo di 20 anni le parole
“comunismo” o “fascismo”? Nel caso migliore, e
naturalmente auspicabile, il possesso morale e
culturale di una personale visione della storia
di questo Paese, ma con una scarsa o nulla
aderenza al mondo che essi vivono. Un mondo che
ha cambiato i propri schemi sociali, che ha
inventato nuovi modelli produttivi e che deve
mettersi in relazione ad essi con strumenti
adeguati.
Il richiamo della memoria è ad un grande
dirigente del PCI, Giorgio Amendola, che da uomo
del Sud pose enorme attenzione a ciò che
avveniva nel mondo del lavoro, sopratutto al
settentrione, per trarne modelli utili a capire
come cambiassero i tempi e conseguentemente come
la politica dovesse cambiare. L’attualità,
ripeto, incalza e impedisce di restare immobili.
Le liste civiche di un comico vestito da tribuno
della plebe infiammano l’opinione pubblica più
stanca, che con fatica crescente guarda ad una
politica lontana dal mondo reale, pensando che
sia cosa che non la riguarda, o peggio, che non
la riguarda più. E’, questo sentimento di
cosidetta “antipolitica”, il segno tangibile
della necessità di rimettersi in ascolto e di
rispondere alle richieste, anche quelle più
violente, con gli strumenti di cui la politica
dispone, con le leggi, con le riforme, con lo
scardinamento dei sistemi di cartello che hanno
danneggiato l’economia pubblica e impoverito i
più poveri, emarginando chi non aveva, per
nascita, i diritti dinastici sul lavoro e sulla
realizzazione di sé.
A questo sentimento, sempre pericoloso perché
innamorato dell’idea di un “uomo forte” che
rappresenti la panacea, bisogna rispondere. Per
farlo occorre essere forza maggioritaria nel
Paese, priva delle contraddizioni della doppia
natura racchiusa nello slogan che inneggiava
alle forze di lotta e di governo. Guardiamo a un
bipolarismo chiaro, trasparente, regolato da una
legge elettorale maggioritaria e con soglie di
sbarramento che semplifichino il lavoro di chi
vuole fare le riforme. Guardiamo a un Partito
federale, in cui minima sia la distanza fra gli
eletti e gli elettori, che sappia capire le
esigenze del territorio che esprime gli eletti e
sappia valorizzare quelle particolarità,
rinunciando a modelli prestampati di sviluppo
sostenibile. Non si tratta del Partito del nord,
una formula che non ho mai usato e che non
riconosco, si tratta della volontà di affrontere
le grandi questioni che dal banditismo ad oggi
hanno scavato il divario fra nord e sud. Ragioni
profonde, culturali, storiche, che però devono
trovare un esito diverso dalla rassegnazione con
cui parliamo oggi di questione “settentrionale”
e “meridionale”.
Credo che la politica nuova che serve all’Italia
debba essere coraggiosa nel guardare alle
liberalizzazioni, alla promozione della
concorrenza, al risanamento finanziario, ad uno
Stato leggero e regolatore, ad una reale tutela
dei diritti del cittadino. Tesa ad un modello
sociale efficiente ed inclusivo, alla
valorizzazione delle persone, ad iniziare dai
giovani e dalle donne, che non li condanni alla
precarietà, che potenzi la formazione,
promuovendo il merito, ridisegnando il
welfare, promuovendo diritti e riaffermando
i doveri. Una politica di difesa della
sostenibilità ambientale, e della piena
valorizzazione delle risorse naturali, che
sappia dire “SI” ad un nuovo patto fra scienza,
tecnologia ed ambiente, consapevole che lo
sviluppo economico oggi non può fare a meno
della difesa dell’ambiente. Una politica che
investa sulla risorsa immigrazione, favorendo
l’integrazione in un quadro di pieno rispetto
della legalità e che non tema di confrontarsi
con le sinistre degli altri grandi Paesi europei,
in grado da tempo di promuovere politiche di
equità sociale attraverso la valorizzazione
delle proprie, peculiari, risorse e possibilità.
Fin qui, l’idea.
Quello che occorre fare oggi è riprendere a
parlare all’opinione pubblica, spiegando il
progetto. Uscire dalle stanze spesso divenute
elitarie e dalle discussioni figlie di una
partitocrazia superata. Il Partito Democratico
non dovrà essere – si è detto a lungo – una
fusione fredda tra due forze politiche, ma dovrà
muovere dalla volontà e dalla nostra capacità di
ricominciare da capo. Occorre il coraggio di
ricominciare a parlare dei grandi temi senza
etichette di destra o di sinistra, senza
l’appropriazione indebita del marchio di
fabbrica di un filone o di un altro. Di che
colore è l’esigenza di sicurezza? Di che colore
sono le norme che regolamentano una buona
immigrazione? Di che colore è un’analisi
coraggiosa dei mali dell’economia italiana? Solo
rinunciando a ragionare in termini di
appartenenza immobile riusciremo a volgere
la Storia al futuro, smettendo
di ricondurre l’identità di un Partito che sta
per nascere a quella di Partiti che non esistono
più e a portare nuovo vigore nel quadro che
vogliamo comporre. Si deve investire sulla
possibilità che le culture politiche che hanno
risollevato l’Italia del dopoguerra (comunista e
socialista, liberale e cattolica – democratica)
trovino un denominatore comune guardando al
futuro dell’Italia e del mondo. Non la
riedizione di un compromesso per governare
l’emergenza, ma il mettersi in discussione
reciprocamente e contemporaneamente in rapporto
alla sfida che la società di oggi e di domani
pone ai nostri diversi paradigmi ideali e di
valori, riconoscendo a tutte le culture pari
dignità sin dall’inizio del percorso, per non
correre il rischio di vanificarlo.
Le innovazioni sono sempre difficili, i
cambiamenti richiedono sempre coraggio, anche
quando non nascano dai grandi traumi delle
rivoluzioni o delle dittature, ma quando, come
per nostra fortuna ci occorre in questa epoca,
essi vengano originati dal fluire della nostra
storia politica, dal cambiare delle condizioni
globali.
Credo debba misurarsi qui, oggi, il coraggio più
autentico della migliore sinistra italiana.
Sergio Chiamparino
Sindaco di Torino
LE RAGIONI DEL NO
Seguiamo con grande rispetto il percorso
avviato da chi vuole costruire il Partito
Democratico e le ragioni che lo motivano. I
socialisti hanno posto, fin dal congresso di
Genova, la questione della “Casa dei
riformisti”, avviando di fatto il percorso
che ha portato a costruire le liste unitarie
dell’ULIVO alle elezioni europee del 2004.
Al fondo di quella idea c’è stata
l’aspirazione a superare le persistenti
anomalie della politica italiana e la nuova
formazione non doveva essere fine a se
stessa, ma diventare il prototipo di un
grande Partito riformista.
Quanto si sta oggi costruendo non è però un
coerente proseguimento di quel percorso
innovativo, ma l’incontro di due sole
storie: l’ex-PCI ed ex-DC, che assomiglia
troppo ad un compromesso storico “bonsai”,
tra esponenti della tradizione democristiana
meno laica di De Gasperi e Fanfani e chi è
più che mai deciso a non riconoscere il
successo storico del socialismo liberale,
come ha recentemente scritto Antonio
Girelli.
Non è, quindi, una novità, anzi, la somma di
quel che resta di due antiche tradizioni
della nostra Repubblica sembra un regresso
nel passato. Voglio evidenziare alcune
questioni irrisolte che impediscono a noi
socialisti di aderire oggi al Partito
Democratico.
La prima riguarda le luci spente su quella
che sarà la collocazione internazionale ed
europea del P.D. C’è chi ha parlato di stare
nell’“ambito” del socialismo europeo,
considerando questa questione successiva a
quella del varo del PD. Ma si tratta di un
mediocre espediente dialettico-lessicale!
Nella storia politica d’Europa le grandi
famiglie sono quella socialista democratica,
quella popolare conservatrice e quella
liberale, con ai margini gruppi estremi ed
esigui di destra e di sinistra. Inventarsi
una nuova soggettività (ulivista?) appare
stravagante e politicamente incongruo. Del
resto è difficile comprendere le ragioni che
inducono i dirigenti della Margherita a
respingere sdegnosamente l’idea di
iscriversi al gruppo europarlamentare del
Partito Socialista Europeo. Forse quel
gruppo sembra a loro troppo di sinistra?
Davvero pensano che la maggioranza dei
laburisti inglesi, dei socialdemocratici
tedeschi, dei socialisti francesi, spagnoli,
portoghesi, svedesi, greci siano troppo
radicali o troppo laici per ospitare le
anime cristiano-sociali presenti tra i
petali della Margherita?
Ancora quindici anni fa il Partito Popolare
Europeo era essenzialmente il Partito dei
democratici cristiani, ma dopo l’immissione
dei conservatori inglesi, dei gollisti
francesi, di Forza Italia sono diventati un
Partito essenzialmente conservatore. Non vi
sono dunque terze vie, se non quella
rispettabilissima dei liberali. Ma se tale è
il sentimento profondo, se il liberale
francese Bayrou è apparso a Rutelli
preferibile alla socialista Royal, perchè
unificarsi con il maggior Partito della
sinistra italiana, membro del PSE? Il
problema vero risiede però nell’incerta
identità dei DS, che continuano a rifuggire
dall’idea di una identità socialista, che
sentono non propria. Ritengo che questa sia
una delle ragioni che ha fatto costituire a
Fabio Mussi la “Sinistrra Democratica” e
pensare alla “Cosa Rossa”, anziché aderire
alla Costituente socialista.
Così i DS dopo aver fatto tanta strada come
PCI per essere ammessi a far parte del
socialismo europeo, si troveranno, dopo il
14 ottobre, in un Partito che non fa più
parte della famiglia socialista europea. Per
noi socialisti, che per definirci non
abbiamo bisogno di premettere alcunché al
nome (non siamo “Post” qualcosa, come
altri, ma sempre e solo, semplicemente,
socialisti!) è impensabile immaginare che in
Italia il più grande Partito di sinistra,
sia pur moderata, non possa sopportare la
sigla di socialista, anche soltanto in
Europa! Non possiamo accettare un generico
riformismo senza tradizioni e senza
ideologia, che vuole andare “oltre” il
concetto di socialismo, verso approdi tanto
genericamente democratici quanto
politicamente indistinguibili.
Il dibattito sul nascituro Partito è
sembrato a volte ruotare su di un aggettivo
che non c’è, ossia “socialista”. In verità,
coloro che hanno respinto l’ipotesi di
conferire al nuovo soggetto politico
l’identità socialista e la collocazione
internazionale nella famiglia delle
socialdemocrazie europee, sottintendono a
loro volta l’aggettivo taciuto, ma
implicito, nel loro pensiero: “liberale”.
E’ evidente che tra un Partito
liberaldemocratico e uno socialdemocratico,
le differenze non sono solo di ordine
storico, ma ineriscono all’attualità delle
concezioni politiche e dei programmi di
governo. Carlo Rosselli aveva provato, con
il suo socialismo liberale e il dittico di
azione politica “giustizia e libertà”, a
sintetizzare la duplice stella polare che
sul piano etico-civile avrebbe dovuto
costituire l’orientamento di fondo del
Partito stesso. Oggi le sperienze in Europa
che, a torto o a ragione, vengono ricondotte
a tale modello, l’economia di mercato è
assunta come quadro di riferimento
imprescindibile ma
bisognoso di una continua opera di
monitoraggio e regolazione affiché non entri
in colllisione con altri principi e valori
ritenuti anch’essi imprescindibili per una
visione liberalsocialista della società.
La Costituzione italiana,
del resto, già prevede nei suoi principi
fondamentali che vi sono diritti
costituzionalmente protetti tra i quali
quello al lavoro, all’assistenza sanitaria,
all’istruzione, alla parità tra i generi. In
quanto diritti, essi non possono essere
abbandonati per la loro realizzazione alla
mera zione del mercato, ma vanno garantiti
comunque, se necessario, anche oltre il
mercato. E’ dunque partendo da queste
esigenze che può essere rinvenuto il tratto
socialista indispensabile in una formazione
politica quale quella che si ambisce
costituire. L’elemento liberale
invece, dovrebbe essere quello che con
maggiore sensibilità si pone a tutela di
quei diritti personali che le forme di
associazione collettiva tendono spesso a
prevaricare.
Nel suo recente saggio “La democrazia che
non c’è” Paul Ginsborg afferma che
“oggi è indispensabile connettere
rappresentanza e partecipazione, economia e
politica, famiglia e istituzioni” Si
tratta di un programma sul quale potrebbero
oggi convergere i padri storici del
socialismo e del liberismo ottocenteschi,
Karl Marx e John Stuart Mill, come
suggerisce l’autore nell’ironica descrizione
di un immaginario incontro tra i due.
Resta il fatto che il non qualificare
quell’aggettivo “democratico” (che si è
voluto unicamente attribuire al nuovo
Partito) con altri connotati, non è un
problema soltanto nominalistico, ma implica
l’intera identità di un Partito che, se
proprio non si vuole chiamare
socialdemocratico, potrebbe almeno
richiamarsi al socialismo liberale, una voce
che è l’unica mediazione possibile tra un
mercato senza regole e un sotto-sviluppo
senza speranza ed alla quale non possiamo
rinunciare.
Altra questione: il PD viene definito un
Partito di “laici e cattolici”. Cosa ben
diversa di un Partito del socialismo
europeo, che è un Partito laico, composto di
credenti e non credenti. Dove i credenti
sono cattolici ma anche di altre fedi
religiose.
Il PD nelle battaglie politiche che
l’attendono dovrà ispirarsi a valori comuni,
che non sembrano ravvisabili nelle
rispettive tradizioni ideologiche.
La fusione di due Partiti riuscirà a
conciliare l’ispirazione religiosa e la
laicità delle istituzioni? Non è prevedibile
un conflitto interno tra cattolici e laici
del PD su coppie di fatto, fecondazione
artificiale, aborto, eutanasia, ecc.?
L’esperienza negativa della fusione tra PSI
e PSDI dovrebbe pur essere meditata
nell’affrontare con il PD una riedizione, in
scala minore, del compromesso storico.
Le questioni di carattere programmatico non
sono chiaramente evidenti, nè la dignità
delle posizioni politiche che, nell’Europa
del XXI secolo, non possono essere altre, a
sinistra, che quelle del socialismo liberale.
Il percorso finora seguito è la pura e
semplice sommatoria burocratica
di due apparati (peraltro, neppure
robusti e coesi), con tutti i problemi che
ne conseguono, oggi al centro del confronto
interno ai due Partiti. Tanto che la
costruzione del soggetto politco,
l’oggettiva contrapposizione tra premier in
carica e aspirante futuro leader della
coalizione, è causa di instabilità per il
Governo in carica e sta diventando un
sentiero minato per gli equilibri della
maggioranza.
Dopo le primarie del 14 ottobre e lo
scioglimento dei DS, si avrà la
cancellazione di una parte ampia della
presenza socialista nel nostro Paese. Una
eliminazione che lascia allo SDI e alle
altre componenti che aderiranno alla
Costituente socialista l’onore e l’onere di
essere i soli in Italia ad essere parte del
socialismo europeo. La questione socialista
ritrova il suo spazio. Toccherà alla
Costituente socialista farsi carico di
mantenere i termini di un riferimento chiaro
all’esperienza storica ed alla realtà
politica del socialismo democratico europeo.
Quello che oggi ha come modello il New
Labour di Gordon Brown e il Neue
Mitte di Schroeder.
Sergio Luigi Ricca Consigliere SDI Regione
Piemonte