Giordano Bruno, 406 anni fa, dopo lunghi
anni di carcere e terribili sofferenze
(fu sottoposto anche a tortura almeno
due volte: a maggio del 1597 e a
settembre del 1599), veniva condotto dal
carcere del Sant’Uffizio a piazza Campo
dei Fiori per essere bruciato vivo, a
piedi scalzi e con la lingua stretta
nella mordacchia per soffocarne fino
all’ultimo la parola. Anche i suoi libri
venivano bruciati sulla scalinata di S.
Pietro. Era giovedì grasso del 17
febbraio 1600, e la Chiesa cattolica,
che aveva voluto quella morte atroce,
celebrava in quell’anno il suo giubileo.
Il santo tribunale dell’Inquisizione
romana, presieduto personalmente dal
papa, aveva condannato Giordano Bruno al
rogo perché “eretico impenitente,
pertinace”.
Sono gli anni in cui Santa Romana Chiesa
sferrava uno dei più pesanti attacchi
repressivi contro quanti osassero
pensare con la propria testa e
rivendicassero il diritto di scegliere
visioni del mondo, comportamenti di vita
non omogenei e funzionali a quell’unica
verità, che essa autoproclamava assoluta
ed eterna.
Era inevitabile che Bruno si scontrasse
con il potere dominante perché aveva il
“vizio di pensare”. E pensando si
opponeva a tutto quanto fosse già
dogmaticamente predefinito.
“È stoltissimo credere per
abitudine, è assurdo prendere per buona
una tesi perché un gran numero di
persone la giudica vera” era
solito ripetere il nostro filosofo
affermando con forza la grande
prospettiva dialogica della relatività
delle conclusioni, desacralizzando tutto
e tutti “a lume di raggione”.
Con entusiasmo egli accoglie
l’eliocentrismo, la portata
rivoluzionaria della nuova cosmologia,
assumendosi il compito di “risvegliare
i dormienti”. Giordano Bruno, così,
costruisce sull’eliocentrismo gli
sviluppi ontologici, gnoseologici ed
etici della sua filosofia, al fine di
rompere definitivamente le muraglie che
chiudevano il mondo e l’umanità nella
finitezza, affinché si cerchi il vero e
ci si liberi delle chimere fideistiche.
Giordano Bruno comprende che la scoperta
di Copernico va ben oltre le questioni
cosmologiche, e pertanto ne coglie la
portata rivoluzionaria per liberare la
ragione umana da una situazione di
perenne inferiorità (la sua bassa
condizione), cui la concezione della
divisione tra un cielo superiore e una
terra inferiore l’aveva relegata.
Gli individui, fiduciosi nella ragione,
nei sentimenti e nelle possibilità e
capacità della loro azione, - sostiene
Bruno – non più “ciechi”, non più
“muti”, non più “zoppi”, finalmente non
devono temere più di “eplicar
gl’intricati sentimenti (…) far quel
progresso col spirto”, che
finalmente da soli possono compiere.
Bruno auspica, infatti, che ognuno possa
trovare nella ragione la luce
intellettuale, mettendo in discussione
schemi mentali e rapporti di potere
consolidati, perché (ecco la mirabile
rivoluzione), se la terra gira, “con
la terra si muovono tutte le cose che in
terra stanno”.
Non è casuale, infatti, che la Chiesa si
scagli con estrema brutalità contro la
diffusione del copernicanesimo. Togliere
il punto fermo rappresentato dalla Terra
non è cosa da poco: tutta la storia
sacra è stata edificata sulla Terra, e
Bruno la mette in crisi con la sua
filosofia. Con l’infrangersi delle
muraglie celesti, Bruno sospetta
l’infinità dell’universo! È la natura
l’infinito, perché “materia Madre
che partorisce all’infinito le sue forme”.
Bruno, nel “De la causa principio
et uno” ribalta il rapporto
materia-forma della concezione
aristotelico-scolastica, e fa della
materia madre, unica totale nel suo
divenire infinito, l’Essere Perfetto,
Dio. Bruno spazza via, quindi, il
creazionismo esterno alla natura, ma
anche i finalismi antropomorfici ed
antropocentrici, che su quello si erano
stratificati. Riduce la religione del
Dio-uomo-rivelato a strumento di
oppressione politico-sociale. “La
fede si richiede per l’istituzione di
rozzi popoli che denno (devono,
ndr.) esser governati –
scrive Bruno nell’epistola proemiale del
‘De l’infinito universo et mondi’
– e la dimostrazione per gli
contemplativi (filosofi, ndr.) che sanno
governare sé et altri”.
Con Bruno, l’Essere. La Natura, la Vita
è infinita trasformazione nel suo
particolare caratterizzarsi, nel suo
Infinito divenire biologico e storico.
Penetrare, afferrare questa unitarietà
dei meccanismi della natura era il
grandioso sforzo della cultura
rinascimentale, esercitando la “magia
naturale”: Come viene assunto da
filosofi e tra filosofi” –
scrive Bruno – mago significa uomo
sapiente, dotato di capacità operative
(De Magia). Questa magia era la
“scienza” di allora, cui dobbiamo
riconoscere il merito di aver aperto la
prospettiva della conoscenza della
realtà. Se la natura è immanente
totalità del suo unico e medesimo
essere, non più misteriosa inindagabile
emanazione di esterno miracolo, non si
deve ricorrere a forze esterne ed
estranee ad essa per spiegarla.
Finalmente sul piano logico è possibile
capirne principi e leggi avendo fiducia
nelle sole capacità e possibilità della
ragione (come poi insegnerà Immanuel
Kant fondando l’episteme della scienza).
La filosofia ritrova con Bruno il suo
fondamentale ruolo di disvelamento, di
acquisizione scientifica, nella piena
consapevolezza del ruolo storico che
ciascun filosofo, ciascun intellettuale
ha nel contribuire a migliorare sé e la
società. È il ruolo che Bruno da a se
stesso, facendo coincidere filosofia e
vita.
Bruno crede in una società umana da
realizzare su basi
filosofico-naturalistiche, riconciliando
l’uomo e il suo pensiero con la realtà
del cosmo natura, dove gli uomini
saranno liberi se avranno saputo
sgombrare le menti dalla “fede asinina”
per esercitare responsabilmente la
propria individuale e civile dimensione
etica.
Questa dimensione etica, è la “religione
civile” di Giordano Bruno, ed emerge con
tutta chiarezza nello “Spaccio
della bestia trionfante” e nella
“Cabala del cavallo pegaseo”.
Qui Bruno, con estrema lucidità spiega
le ragioni della decadenza in cui
l’Europa, insanguinata dalle guerre di
religione, è precipitata, e definisce
contestualmente la sua riforma.
È nello Spaccio e nella
Cabala che i frutti della
pedanteria e dell’asinità imperversanti,
vengono attribuiti da Bruno alla loro
radice di origine, a quella religione
della rinuncia e dell’ozio che è il
cristianesimo tutto. Questo, infatti, da
San Paolo ai padri della Chiesa, ai
teologi cattolici e a quelli
protestanti, non ha fatto altro che
svilire l’agire umano.
Per Bruno la decadenza dell’umanità sta
nell’ideologia escatologica del
cristianesimo, che proiettando la vera
vita nel regno dei cieli, di fatto
svilisce ed ostacola ogni impegno
consapevole all’azione umana e alla
pacifica convivenza civile.
Quella che Bruno auspica è una radicale
renovatio, per la quale occorre
un Uomo nuovo, svincolato dalle
prospettive
provvidenzialistico-escatologiche che lo
vorrebbero nella santa asinità,
con man gionte e’n ginocchion…
aspettando da Dio la sua ventura
– come scrive nella “Cabala del
cavallo pegaseo”. Bruno vuole
insomma l’uomo liberato dalla condizione
d’inferiorità, di rassegnazione – croce
di condanne ancestrali – da sopportare
con gratitudine, nella speranza della
vita celeste: “La qual ne done Dio
dopo l’essequie” (“Cabala
del cavallo pegaseo”).
A quali radici culturali allora
appellarsi? Bruno cerca in qualche modo
di riannodare le fila con una umanità e
con una civiltà sopite: dei greci, dei
romani, e ancora a ritroso… quella
egizia, in cui ravvisa il primo nobile
esempio di aggregazione sociale.
Ad una contemporaneità che non è
portatrice di progresso civile, Bruno,
alla stregua dei più grandi
intellettuali del Rinascimento,
contrappone idealmente gli antichi
perché siano da modello, spinta
propulsiva, perché, come aveva già
scritto ne “La Cena delle Ceneri”,
nel viver temperati, ne la
medicina esperti, ne la contemplazione
giudiziosi.
Novello Mercurio, si fa portatore di
questo annuncio di rinnovamento, di
illuminazione razionale per un’umanità,
che finalmente viva in piena armonia con
la totalità della natura. Quella armonia
presente nella mitologia antica – in
quella egizia innanzi tutto – prima che
la si soppiantasse con il dio assoluto
della separazione cielo-terra: “quel
dio, come absoluto, non ha che far con
noi (…). Da qua puoi inferire, come la
sapienza de gli Egizii, la quale è
persa, adorava gli crocodilli, le
lacerte, li serpenti, le cipolle; non
solamente la terra, la luna, il sole ed
altri astri del cielo” (“Spaccio
della bestia trionfante”). Ma i
miti egizi rappresentano solo la
metaforica espressione del legame
uomo-natura, perché è la ragione, nel
suo “eroico furore”, a
dover comprendere l’essenza della
natura, la sua unitarietà nel suo
infinito divenire, di cui l’essere
umano, che è parte integrante, deve
acquisire consapevolezza per poter
agire.
Bruno è del tutto consapevole che il suo
scontro con il potere totalitario è
impari. Verrà ucciso, lo presagisce e lo
denuncia nei suoi scritti. Ma vuole
anche, e con tutte le sue forze, che del
suo pensiero rimanga traccia. Per questo
non si sottomette alla Chiesa, perché
significherebbe ritrattare, consentendo
infine la manipolazione, il
riadattamento della sua filosofia in
funzione di quel potere che egli vuole
abbattere. Non è che vuole diventare
asino, come i tanti che vanno ad
ingrossare la massa acquiescente
rinunciando al pensare vivo e libero,
rinunciando alla propria umanità,
all’albero della conoscenza (de la
vita). Ecco come Bruno descrive
costoro ad esempio nella “Cabala”.
“Fermaro i passo, piegaro e
dismesero le braccia, chiusero gli
occhi, bandiro ogni propria attenzione e
studio, riprovaro qualsiasi uman
pensiero, riniegaro ogni sentimento
naturale, ed infine si tennero asini.
(…) hanno inceppate le cinque dita di
un’unghia, perché non potessero, come
l’Adamo, stender le mani ed apprendere
il frutto vietato de l’arbore della
scienza, per cui venissero ad esser
privi de l’arbore de la vita”.
Per questo, di fronte ai giudici
dell’Inquisizione, a quei teologi che si
arrogavano il diritto di asserire verità
assolute e di schiacciare tutto quanto
non vi si conformasse, Bruno sarà
irremovibile sulle sue posizioni
filosofiche. Per questo, di fronte al
cardinal Bellarmino, a cui basterebbe
infine una catechistica abiura, Bruno
esige il riconoscimento della sua
speculazione filosofica.
Tuttavia, quel potere che con le
sofferenze e il rogo sperava di
annientare l’uomo e il suo pensiero, è
esso stesso che prova timore nel momento
in cui decide di mandare Bruno al rogo.
E per questo, forse alla fine, ha più
paura di quanta ne possa avere il
condannato: “Maiori forsan cum
timore sententiam in me fertis quam ego
acipiam” (Forse avete più paura
voi nel condannarmi, che io nel subire
la condanna), dichiara Bruno al momento
della sentenza, secondo la testimonianza
di Kaspar Schopp.
Dunque, nonostante gli sforzi messi in
atto da Santa Romana Chiesa perché anche
il pensiero di Bruno si perdesse con le
ceneri della sua persona e dei suoi
libri; nonostante i reiterati anatemi
contro quanti ne proferissero finanche
solo il nome, la memoria di Bruno, non
solo è rimasta viva, grazie allo studio
della sua filosofia, ma è divenuta
simbolo del diritto di pensare
liberamente per ognuno di noi. Un
diritto base di tutte le legislazioni
democratiche, risultato delle lotte e
delle conquiste del pensiero e
dell’azione dei laici, che nella Storia
hanno contribuito ad affermare
libertà, giustizia, fratellanza
(valori che sono a base delle
rivoluzioni moderne).
Nel momento storico attuale, in cui
sembra tornato un pensiero unico che si
nutre di conformismo e mediocrità, la
memoria di Bruno, “credente nella
laicità della ragione” (secondo
la felice definizione di Luigi Firpo)
richiama ognuno di noi a spezzare il
cerchio della verità predefinita, a
liberarci dai vincoli, per essere
soggetti attivi della nostra storia.
Il fanatismo della fede, oggi è
drammaticamente presente nelle teocrazie
islamiche, ma ha rigurgiti anche nel
nostro “civile occidente”, quando si
pretende che il singolo debbia adeguarsi
ad un modello di morale, che si vorrebbe
eterna e rivelata. Un modello
precostituito, fideistico e dogmatico,
che ha prodotto nella Storia le stragi
di ebrei, omosessuali, donne (le
streghe), liberi pensatori… gli eretici
perseguitati e mandati a morte
dall’intolleranza.
Giordano Bruno è stato ucciso perché non
si conformava, perché metteva a nudo le
radici dell’ideologia della
sottomissione su cui si strutturava quel
potere che lo dichiarò eretico. Ma
eresia vuol dire scelta! È uscire, come
affermava Bruno, dallo stato asinino. È
coraggio di pensare e di agire per
rompere le narcotizzanti gabbie del
conformismo.
Scegliere significa essere padroni di se
stessi. Significa diventare essere umani
e non esserlo a priori; perché ognuno è
ad immagine e somiglianza solo di se
stesso per come crea se stesso, per come
responsabilmente diviene, attraverso le
sue azioni nell’unica vita biologica che
ha a disposizione.
Bruno ci chiama a fondare e a sviluppare
la civile convivenza democratica. Tutto
questo oggi si chiama laicità: bene
individuale e collettivo da tutelare e
su cui vigilare ogni momento.
Oggi, nel nome di Giordano Bruno, siamo
chiamati a contrastare la restaurazione
che aleggia sul nostro Paese e che sta
ripristinando per tanti versi la
pericolosissima alleanza trono-altare.
Si pensi, ad esempio, ai vantaggi
economici dati alla Chiesa di Roma; ai
finanziamenti erogati dallo Stato alle
sue scuole; all’immissione in ruolo
degli insegnanti di religione cattolica
nella scuola pubblica, che potranno
anche insegnare materie diverse
dall’insegnamento confessionale; alla “legge
delega al Governo per la riforma della
scuola” dove si auspica “il
conseguimento di una formazione
spirituale e morale, anche ispirata ai
principi della Costituzione…”.
Si pensi alle restrizioni imposte alla
ricerca scientifica in nome del
dogmatismo; alla vergogna della legge
sulla fecondazione assistita, che
vorrebbe rinserrare le donne in presunte
essenze di vocazione alla maternità, e
che sacralizzando l’embrione, vorrebbe
rimettere in discussione il
diritto-dovere a maternità e paternità
responsabili.
Anche in questi casi la filosofia di
Bruno ci può ancora una volta essere
maestra: “… nessuna legge che non
è ordinata alla prattica del convitto
umano, deve essere accettata… non deve
esser approvata, né accettata quella
istituzione o legge che non apporta la
utilità e commodità, che ne amena ad
ottimo fine” (“Spaccio
della bestia trionfante”).
Pertanto, come Giordano Bruno, che si
definiva il “fastidito”, cerchiamo anche
noi di provar fastidio per tutto quanto
voglia rinserrarci nella passività
dell’acquiescenza.
Maria Mantello